domenica 25 aprile 2010
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I Dik Dik li conosciamo. Dal 1965 sulla breccia, più volte in hit parade tra versioni nostrane di novità anglofone ed i primi capolavori di Mogol-Battisti (Sognando la California, Senza luce, Il vento, Vendo casa…), oggi un album in uscita (Sold out) e un tour al via. Ma dietro la facciata della band, c’è la storia di tre persone. E quella di Pietruccio Montalbetti sorprende. Lo dimostra la sua biografia romanzata, I ragazzi della via Stendhal, edita da Aereostella. Ritratto sanguigno di una Milano reduce dalla guerra, racconto di una generazione cresciuta tra fame e valori, confessione della fortuna di un riscatto in musica. Pietruccio però sorprende ancora di più parlandogli, poco di musica, molto del resto. Compresi i viaggi con cui intervalla l’avventura musicale, quei viaggi «in cui, in fondo, cerco una cosa sola. La fede. Come capitò a mio padre».Partiamo dall’inizio. Un’infanzia di provincia, tra guerra, fame e cimici. Cosa le ha insegnato?«La strada mi ha insegnato tanto. Fino a diciott’anni non avevo mai visto il mare… Ma in strada si parlava, si sognava. E poi avevo due eroi: i miei genitori».A suo padre, senza una gamba, dedica pagine intense…«Mi ha insegnato la dignità. Eravamo in cinque in due locali e non l’ho mai visto in mutande. Era determinato, sia nel cercare lavoro sia quando decise di fare un giro d’Italia in motorino. Noi eravamo sconcertati, lui andò e tornò, con anche l’esperienza misteriosa di aver incontrato Padre Pio… mentre il frate era da giorni nella sua cella. Fu tra i tanti che in quei giorni lo videro e cui portò sollievo».Anche lei ama viaggiare: vi ha persino rischiato la vita più volte. Perché lo fa, cosa ne ricava?«Si capisce chi siamo, dove possiamo arrivare, i nostri limiti. E si imparano gli altri: anche a rispettarli. Se non avessi incontrato gli indios non sarei sopravvissuto all’Amazzonia. Il punto è che io non ho il dono della fede e me ne rammarico. In fondo, viaggio per cercarla. In viaggio ho letto Bibbia e Vangeli. Capendo almeno questo: il valore della vita. Unica, irripetibile, da non sprecare».Stando al libro, il ’68 questo non glielo insegnò...«Il bilancio della mia generazione è fallimentare: non abbiamo trasmesso ideali. Il nostro "facciamo l’amore non facciamo la guerra" era puro disimpegno. Non ci siamo cercati dentro, abbiamo puntato tutto sull’apparenza. Certa tv d’oggi è pure colpa nostra».Parliamo di musica: a cosa si devono 45 anni di band?«Il fulcro era la voglia di evadere dalla mediocrità. I Dik Dik sono tre mediocri chitarristi che hanno usato l’intuito per andare oltre i loro limiti».Accidenti. Ed oggi? Guardate avanti o indietro?«Noi siamo stati salvati da trasmissioni furbe come Una rotonda sul mare. In un periodo di musica finta ha rimandato agli anni più prolifici della nostra arte. Facendo ripartire molti, noi compresi, per altri lidi. Che però non sono revival: di recente è nato solo il rap, tutto il resto viene dal passato».Con la musica voi aiutate anche altri, sul sito della band c’è il logo dell’Ospedale San Paolo di Milano…«Altra mia idea. Il San Paolo ospita bambini dei campi profughi palestinesi che là non possono essere curati. Coi soldi raccolti abbiamo pagato i viaggi dei bimbi, ora speriamo di far venire qui pure i medici. Perché imparino quanto gli serve sul campo».Ma alla fine è valsa la pena per lei fare musica?«A risponderle in astratto le direi no. Mi piacerebbe essere archeologo. Ma la mia vita è stata altro. Senza soldi, senza possibilità di studiare, partendo da sottozero… E allora non posso che dirle che sì, ne è valsa la pena. Sono stato fortunato ed ho saputo costruire sulla fortuna: così oggi ho un mestiere».
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