mercoledì 12 dicembre 2012
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Un ultimo sguardo. Appena sufficiente per riempirsi gli occhi e la mente. L’addio, però, ha già il sapore dell’arrivederci. Proprio come il mare ha lo stesso colore del cielo. Forse per questo Pierluigi Murgioni lo ha sempre amato tanto. E forse per questo, a 51 anni e con un tumore all’intestino in fase avanzata, ha voluto tornare un’ultima volta a Villaputzu, nella sua Sardegna. Morirà a pochi mesi dal rientro a Gaino, in provincia di Brescia, il 2 novembre di 19 anni fa. Mentre guarda il mare sardo, però, Pierluigi si sente vivo. Proprio come 21 anni prima. Quando gli bastava la vista di uno scorcio d’acqua dalla finestra del carcere di Punta Carretas per sentire forte la presenza di Dio e trovare il coraggio di affrontare le torture, gli insulti, la solitudine. Non era il mare, in realtà, che Perluigi vedeva dalla feritoia della cella ma il Rio de la Plata – «Il gran fiume color del leone», lo chiamava lo scrittore Ernesto Sabato –, sconfinato e maestoso come l’oceano, tormentato come le storie dei Paesi che attraversa: Argentina e Uruguay. In quest’ultimo, Pierluigi era arrivato, appena ordinato sacerdote, il 10 settembre 1968, per rispondere alla richiesta di aiuto del vescovo di Melo, monsignor Roberto Cáceres. A 26 anni, non immaginava che la sua storia di uomo e missionario si sarebbe intrecciata tanto intimamente con quella della nazione in cui era stato mandato. Fino a vivere sulla propria pelle la ferocia di quegli anni turbolenti. Un esempio di coerenza cristiana e di impegno civile poco noto e che ora Anselmo Palini riscopre e racconta con efficacia nel libro Pierluigi Murgioni. Dalla mia cella posso vedere il mare, appena pubblicato dall’Editrice Ave (pp. 288, euro 14). Il saggio ricostruisce ­attraverso lettere e testimonianze dei protagonisti - con particolare attenzione, i nove anni uruguayani di don Pierluigi, di cui cinque e mezzo trascorsi nelle prigioni del regime. Una «miniera di fatti, memorie racconti e riflessioni che permettono di scostare un poco il velo di riservatezza su don Pierluigi e che ci aprono con delicatezza alcune finestre sulla sua vita di prete autentico», scrive nella Prefazione, monsignor Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina e compagno di seminario del sacerdote. Quando Murgioni arriva sulle rive del Rio de la Plata, le contraddizioni di uno sviluppo basato sull’esportazione di materie prime per il mercato internazionale sono ormai esplose. Disoccupazione, inflazione, diseguaglianza galoppano. L’onda d’urto sgretola la democrazia, fino ad allora solida. Da una parte, incalza il movimento guerrigliero di sinistra dei Tupamaros. Dall’altra, esercito, grandi proprietari e settori politici più conservatori cavalcano il fantasma della sovversione per attuare una repressione spietata. Verso chiunque difenda i diritti degli ultimi. La 'Svizzera dell’America Latina', come veniva chiamato il Paese, è al capolinea. Il 27 giugno 1973 nasce nel piccolo Uruguay la prima dittatura militare del Cono Sud: ben presto Cile e Argentina ne avrebbero seguito l’esempio. Già nei due anni precedenti, però, una cappa di terrore aveva avvolto la nazione. Stritolando nella morsa l’intera società civile, inclusi vari sacerdoti. Don Pierluigi viene arrestato l’8 maggio 1972: per settimane viene pestato e seviziato con scosse elettriche, privato del cibo, dell’acqua, del sonno. Poi, rapato e con il numero 756 impresso sull’uniforme, viene tenuto in cella – prima a Punta Carretas e poi a Colonia Libertad –, senza prove, né processo, né condanna, fino al 9 ottobre 1977. Nonostante le rimostranze della Chiesa e dell’Italia. Papa Paolo VI si interessa direttamente al caso. E, fin dal principio, il vescovo di Brescia, Luigi Morstabilini, si spende senza posa per il sacerdote. A cui viene perfino impedito di celebrare la Messa dietro le sbarre. Il direttore di Colonia Libertad, dopo una prima apertura, gli revoca il permesso. Perché le celebrazioni diventano per credenti e no uno spazio di libertà. L’unico nel claustrofobico carcere del regime. Attraverso la lettura del Vangelo, la vicinanza, la comunione reciproca, i prigionieri si riscoprono – almeno per un momento – uomini. Quella stessa consapevolezza che gli aguzzini fanno di tutto per sottrarre loro. Le 'colpe' di Murgioni sono gravi agli occhi dei militari. Nella parrocchia di Treinta y Tres, don Pierluigi insegna ai ragazzi a vivere il Vangelo, nella testimonianza quotidiana e nel servizio agli altri, e aiuta i miseri tagliatori di canna da zucchero. «Gente che era costretta a lavorare 14-18 ore al giorno, con la schiena piegata fino a terra per ore, per tagliare la canna vicino al suolo», racconta il sacerdote in una lettera. Come se 'non bastasse' per renderlo detestabile agli occhi delle Forze armate, la porta di don Pierluigi è sempre aperta. Anche per i tupamoros. Tra cui un giovane ferito, che Murgioni cura e porta in salvo in Brasile. Sa che non denunciandolo si espone a un enorme rischio ma preferisce sacrificare se stesso che un altro essere umano. Come scrive in una delle prime lettere alla famiglia dall’Uruguay: «L’America ha bisogno anche di questo: di testimonianze di un dono grande e disinteressato, che provengono tutte da una sola grande forza rivoluzionaria, l’Amore. Ne ha bisogno proprio ora in cui sono troppi coloro che fanno appello ad un’altra forza rivoluzionaria, la violenza, per risolvere i grandissimi problemi di mancanza di libertà e di giustizia». Una testimonianza come quella del discepolo di Cristo Pierluigi Murgioni.
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