Vengo, vedo, vinco. E vado. Gli allenatori, almeno nel campionato italiano, applicano la variante sul tema della nota massima di Cesare: e a dispetto di logiche quali i risultati o i rapporti con l’ambiente, danno vita al nuovo trend della panchina, che non prevede permanenza a lungo termine nello stesso spogliatoio nemmeno nel caso in cui il lavoro sia premiato dal raggiungimento degli obiettivi. Dalla mappa delle 20 squadre che hanno partecipato al morente campionato di Serie A, colpisce l’annotazione che a oggi, 14 maggio, Giampaolo Ventura, anni 62, attuale decano dei tecnici di massima divisione, sia l’unico sicuro di cominciare per la seconda stagione consecutiva nel medesimo club. Gli altri - pochi - confermati quali Franco Colomba, Walter Mazzarri, Delio Rossi sono subentrati a Bologna, Napoli a Palermo in corso d’opera. E tutto il resto è bradisismo da panca, tra cambi di guida sicuri o resi possibili (a volte probabili) da un domino che, da un giorno con l’altro, scatenerà la Juventus. Una scossa che potrebbe muovere l’Italia delle panchine attraverso due direttrici: Genova - se Andrea Agnelli si convincerà finalmente sull’opportunità di assumere Gigi Del Neri - oppure Firenze, nel caso apparentemente remoto in cui i Della Valle diano via libera a Prandelli per accasarsi alla Juventus. Una candidatura, quella del tecnico lombardo, che nel caso divenisse elezione potrebbe comportare cambi a sorpresa anche a Roma, con Ranieri richiesto al focolare della Nazionale che invece dovrebbe essere attizzato, Signora permettendo, proprio da Prandelli. E Ranieri andrebbe idealmente a ricomporre, con Mourinho e Leonardo, il podio del campionato: primo, secondo e terzo che, di fronte a un’offerta importante, a un’altra sfida, non esitano o non esiterebbero ad accettarle e a fare le valigie, evitando il riposo sugli allori e ancora meglio la missione ad alto rischio di una conferma. Non è tanto difficile salire in vetta quanto rimanerci, ci hanno insegnato: e sembra proprio che il Re del campionato e i suoi vice preferiscano - al di là del fondamentale aspetto economico - ripartire, accendere un’altra macchina e andare. Leonardo l’ha già fatto, manca solo la formalità dell’annuncio, tornerà nel natìo Brasile a dirigere l’orchestra dell’organizzazione dei Mondiali del 2014. Ciao al Milan e ai suoi tardivi ripensamenti sull’operato del mister inventato in casa: che, considerando inesperienza e armamenti a disposizione, è stato minimo sorprendente. Mourinho è la spada di Damocle sulla festa interista più grande di sempre: l’immensa ondata di gioia e di - giusto - orgoglio prodotta dalla possibile tripletta. Scudetto-Champions-Coppa Italia potrebbe spegnersi velocemente di fronte alla perdita del Vate, del nuovo Mago, alchimista straordinario nell’alambiccare tra veleni dosati ad arte, umori del popolo interista, superiori (Moratti: ma lo è davvero, al di là degli stipendi elargiti?) e inferiori (giocatori). A “Panorama” ha detto senza mezzi termini: «Allenerò il Real», specificando, poi, che «non è vero che abbia un piede e mezzo già a Madrid». Ad Appiano, ieri, ha chiesto ai venditori di gadgets interisti di tenere da parte una decina di t-shirt che riproducono la sua immagine e la scritta “Vamos a Madrid”: febbre da finale Champions (già in fila per gli ultimi biglietti che verranno polverizzati domani mattina) o messaggio da distribuire su stoffa al suo entourage? Depositare l’Inter nel punto più alto che c’è e spiccare il volo verso la Spagna è cosa degna di José Mourinho: la gloria, imperitura, a me. Il fardello creato, a qualcun altro. Un ragionamento che, in qualche modo, può fare anche Ranieri, che ha miracolato una Roma oggettivamente inadeguata alla permanenza stabile nell’attico del campionato. Le prospettive di un bis a questi livelli, a fronte di un’altra campagna acquisti fatta di sangue, sudore e lacrime, sono francamente minime: e Ranieri sa benissimo, visto che a Roma è nato, come lì gli allenatori, novelli Cesari con la variante, possano presto passare da idoli a scomodi tiranni da far fuori.