sabato 8 settembre 2018
Al regista messicano il Leone d'Oro per «Roma», prodotto e distribuito da Netflix (che invece era stata bandita da Cannes). Applausi per la Coppa Volpi a Willem Dafoe per il suo Van Gogh
il regista Alfonso Cuarón con il Leone d'Oro vinto alla 75a Mostra del Cinema di Venezia per "Roma" (Ettore Ferrari/Ansa)

il regista Alfonso Cuarón con il Leone d'Oro vinto alla 75a Mostra del Cinema di Venezia per "Roma" (Ettore Ferrari/Ansa)

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A vincere la 75ª Mostra del Cinema di Venezia è il Messico raccontato da Alfonso Cuarón nel suo personalissimo “amarcord” dal titolo Roma, ma soprattutto Netflix, la piattaforma digitale che produce e distribuisce il film, bandita dalla competizione di Cannes e accolta a braccia aperte al Lido da Alberto Barbera che rivendica l’urgenza di restare al passo con i tempi.

A chi sospetterà “favoritismi” da parte del presidente di giuria, il messicano Guillermo del Toro (grande amico di Cuarón, con il quale ha fondato la società di produzione Cha Cha Cha Films, che vede coinvolto anche Alejandro González Iñárritu), bisognerà ricordare però che Roma è stato uno dei film più applauditi di questo Festival, piazzandosi immediatamente in pole position nella corsa al Leone d’oro e raccogliendo nuovamente l’entusiasmo dei festivalieri al momento della consegna della statuetta.

Ambientato nella Città del Messico degli anni Settanta, mentre il paese si preparava a profondi cambiamenti sociali e politici, il film, girato in bianco e nero guardando a Pasolini, Rossellini e Taviani, è un omaggio del regista alla tata indigena che lo ha allevato, ma anche alla madre e alla nonna, e traccia un affettuoso ritratto della propria famiglia alle prese con la vita quotidiana, tra piccole faccende di tutti i giorni ed eventi destinati a lasciare un segno profondo. «Il film è il frutto dell’immenso amore che nutro per la donna chiamata Cleo nel film, per la mia famiglia e per il mio paese», ha dichiarato il regista commosso.

Il Gran premio della giuria va invece a The favourite del greco Yorgos Lanthimos che, ambientato nell’Inghilterra del XVIII secolo in guerra con la Francia, racconta intrighi femminili, gelosie, vendette alla corte della fragile regina Anna, interpretata dalla straordinaria Olivia Colman che infatti vince la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, accolta da una vera e propria ovazione.

Il Leone d’argento per la migliore regia va a un altro film amatissimo sia dal pubblico che dalla critica, The sisters brothers del francese Jacques Audiard, alle prese con il genere western, reinterpretato in maniera assai personale, e una storia d’amore tra due fratelli che dopo un lungo viaggio in un mondo di sangue, oro, avidità e violenza, troveranno un’insperata pace a casa della madre, in un finale quasi fiabesco.

Meritatissima la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Willem Dafoe che in At eternity’s gate di Julian Schnabel si trasforma in Vincent Van Gogh, applauditissimo protagonista di un film costruito dal regista proprio a partire da alcuni dei più celebri quadri del pittore olandese.

Per la sceneggiatura vincono i fratelli Joen ed Ethan Coen con un altro western, diviso in sei episodi, The ballad of Buster Scruggs, anche questo targato Netflix, che racconta la frontiera americana con una buona dose di dissacrante ironia. Peccato però per il francese Olivier Assayas e il suo Doubles vies, senza alcun dubbio il film meglio scritto del festival tanto da essere accostato al cinema di Woody Allen.

Discutibile anche il Premio speciale della giuria a The Nightingale di Jennifer Kent, l’unica regista in competizione quest’anno, fischiata in sala e purtroppo anche pesantemente insultata. «Continuate a fare film – ha detto la Kent rivolta alle sue colleghe registe – perché abbiamo bisogno di voi. La forza delle donne è la più salutare al mondo, e io dedico il premio alla popolazione della Tasmania che molto ha sofferto». La storia raccontata è infatti quella di Claire, una giovane detenuta irlandese che nel 1895 attraversa la selvaggia Tasmania con l’aiuto di una guida aborigena per dare la caccia all’ufficiale britannico colpevole di averla ripetutamente stuprata e di aver distrutto la sua famiglia. Ma nel film la violenza si fa quasi morbosa e la brutalità eccessiva al punto da condannare i personaggi a una stucchevole monodimensionalità. La giuria però ha deciso diversamente, al punto da assegnare al film anche il premio “Marcello Mastroianni”, dedicato a un giovane attore emergente, che è andato al coprotagonista del film, l’aborigeno Baykali Ganambarr che ha sottolineato quanto l’orrore mostrato nel film abbia raccontato solo in parte quello che è realmente accaduto.

Tutti film ambientati in epoche storiche più o meno lontane quelli premiati ieri, sebbene capaci di dialogare con il presente e di riflettere nell’oggi alcune delle grandi questioni del passato. The day I lost my shadow della regista siriana Soudade Kaadan, presentato nella sezione Orizzonti, è invece la migliore opera prima e mette in scena a Damasco le conseguenze di un sanguinoso conflitto attraverso l’odissea di una donna bloccata in una zona sotto assedio. «Una lettera d’amore per il nostro paese e la nostra gente alla quale abbiamo dedicato molti anni di lavoro nella speranza di un futuro migliore» ha detto la regista.

Il miglior film di Orizzonti è invece Manta Ray del thailandese Phuttiphong Aroonpheng, che punta l’obiettivo sul dramma dei rifugiati Rohingya, mentre il premio per la migliore regia va a River del kazako Emir Baigazin, quello speciale a The announcement del turco Mahnut Fazil Coskun sul tentativo di colpo di stato ad Ankara il 22 maggio 1963, quello per la sceneggiatura al cinese Jinpa di Pema Tseden. I migliori attori sono infine Natalya Kudryashova per The man who surprised everyone di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov e Kais Nashif per Tel Aviv on fire di Sameh Zoabi, che batte il bravissimo Alessandro Borghi nei panni si Stefano Cucchi in Sulla mia pelle di Alessio Cremonini.

L’Italia, in competizione con i film di Martone, Minervini e Guadagnino e in Orizzonti con Cremonini, Scaringi e D’Emilio, resta dunque a bocca asciutta e per il nostro paese quello della giuria presieduta da Del Toro, di cui ha fatto parte anche il regista Paolo Genovese, è uno dei verdetti più severi degli ultimi anni.

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