venerdì 24 novembre 2017
Alla Galleria Borghese una trentina di sculture e gran parte dell'opera pittorica attribuita a Gian Lorenzo esaltamp l’ideale plastico e sensuale di un'arte che sfida la materia e le tecniche
Gian Lorenzo Bernini, particolare del "Ratto di Proserpina" (1621-1622). Roma, Galleria Borghese

Gian Lorenzo Bernini, particolare del "Ratto di Proserpina" (1621-1622). Roma, Galleria Borghese

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In una delle sculture esposte in queste settimane nella Galleria Borghese per la mostra dedicata a Bernini, si vede un fauno alle prese con alcuni putti. È un’opera giovanile, ma già di altissima caratura. Una scultura a quattro mani, quelle di Gian Lorenzo e quelle del padre Pietro. Se il buongiorno si vede dal mattino, qui si tratta di alba radiosa, e impressiona sapere che negli anni Settanta (meno di mezzo secolo fa) quest’opera era passata in asta prima come Giambologna (che muore nel 1608) e poi come Luigi Bienaimé (che muore nel 1878). Una forbice di quasi tre secoli che si fatica a credere, ma non è poi così incomprensibile se si considera la scomunica idealistica che ha pesato a lungo sulla cultura e, all’interno di questa, sull’arte barocca.

Cultura degli eccessi, dell’effimero, di uno strano nichilismo che con lo sfarzo non offre l’antidoto ma il belletto che l’uomo decentrato in un cosmo riscritto dalle scoperte della scienza moderna impone alla propria lancinante percezione del nulla e alla malinconia che ha l’effetto di acutizzare eros, un eros superpotente, che si gonfia e si espone con franca esuberanza senza tuttavia cedere a una plebea e prosaica brutalità. Ogni cosa, che sia manifestazione di grazia oppure sia efferata violenza, segue un protocollo di grandiosa celebrazione del gesto, del corpo, dell’atto che vuole, nel bene e nel male, affermare la vita (che quando eccede, e decade appunto, sprigiona il vitalismo come canto della disperazione).

Il distillato dell’arte barocca è l’apoteosi delle forme, ma sappiamo bene che nell’apoteosi c’è compreso il sentimento della fine. È questa la Verità svelata, come la vediamo nella grande scultura della Borghese. Oltre l’apoteosi, insomma, c’è la morte.

Torniamo al fauno dei Bernini: solo nel 1975, per l’intuizione di Federico Zeri, l’opera venne restituita ai suoi artefici. Giustamente, scrive Andrea Bacchi nel catalogo (Officina libraria), distinguere le mani del padre da quelle del figlio è impresa ardua in quest’opera, perché entrambi lavoravano gomito a gomito su ogni dettaglio, e in fondo potremmo considerare il fauno (che restò sempre nello studio di Gian Lorenzo e non fu opera su commissione), il testimone che lega e congeda per sempre il giovane dal proprio mentore. Dopo questo, egli ormai vola con le sue ali, verrebbe da dire; ma aveva soltanto diciotto anni, tanto per capirci e per capire quale prodigio di natura fosse Gian Lorenzo.

E qui chiedo venia nel tirare in ballo una querelle che agita il mondo di Hollywood e delle nostre starlette in questi tempi stanchi e poveri di spirito: le molestie. Ora, qui, l’opera dei due Bernini, conservata al Metropolitan di New York, ha per titolo: Fauno molestato da putti. E in effetti questi piccoli demoni stanno prendendo per i capelli il fauno e tutti insieme fanno un pezzo di scultura di una tale vivacità che poche se ne erano viste in precedenza (saremmo intorno al 1615).

Alla Galleria Borghese è conservato invece lo strabiliante Ratto di Proserpina, dove Plutone, dio degli inferi, stringe le carni della fanciulla mostrandoci in realtà che cosa sia una scultura “tutta panna”, arte di cui era maestra la pasticciera Susanna nel film di Steno, il cui segreto creativo non fu mai svelato, come certe raffinatezze di Bernini, forse perché c’è poco da spiegare, bisogna arrendersi al fatto che certi virtuosi sono il distillato rarissimo della natura stessa, la crème, per rimanere nel paragone ameno fin qui condotto. E che Bernini fosse un abile inventore di torte e panne montate come di altre scenografiche architetture da vivere e da consumare, è cosa detta e stradetta. Se si guarda la mano di Plutone che stringe il fianco di Proserpina (ma a proposito: essa non ha forse qualcosa della mano con cui la Madonna dei pellegrini di Caravaggio stringe le carni del suo ignudo putto-Gesù?); ecco, se si guarda bene come le carni in quel marmo prendono a respirare, a gonfiare, quasi potessimo sentire con gli occhi la morbidezza e la tensione di cui fremono, si comprenderà almeno che l’ideale di Gian Lorenzo non era scultoreo ma pittorico, era plastico-sensuale.

Così fra molestia e ratto (oggi con rozza insistenza su tante bocche ricorre la parola stupro per una resa dei conti che sta allargandosi a piaga biblica) queste due sculture ci fanno comprendere una differenza che la società del politically correct non sembra considerare. Ratto e molestia sono cose ben diverse. Persino il sapiente Giobbe, l’eroe idumeo, uomo saggio messo alla prova, evocò i «consolatori molesti», quelli che fanno discorsi vuoti. E tuttavia, se i putti tormentano il fauno, questi si lascia quasi prendere nel gioco; ma Proserpina, no, lei lotta, con le braccia, col busto e la testa, cercando di divincolarsi dalla stretta: il punto di maggior tensione si trova nelle bellissime gambe della dea che scaricano e dichiarano tutta l’avversione al ratto che si sta compiendo concentrandola nella punta dei piedi, nei due alluci che si tendono in opposte direzioni. Tutto questo con una potenza espressiva che non teme giudizi di liceità, anzi accentua la bellezza di questo atto di forza, ma per dichiararne la natura sopraffattrice. La reazione dello spettatore sarà di meraviglia, di ammirazione per la bravura assolutamente rara del genio, e quasi dimenticherà il tema che sta osservando. Ecco cos’è il barocco: l’eccesso del sentimento vitale di fronte a una natura che sembra aver tradito l’uomo lasciandolo solo e disperso nel cosmo. E questo ricongiunge il barocco col classico (e l’aveva sospettato già, quasi un secolo fa, Wölfflin).

La mostra, che vuole celebrare anche i vent’anni della riapertura della Galleria Borghese, accosta una trentina di sculture e gran parte dell’opera pittorica attribuita a Gian Lorenzo Bernini, fra cui il Ritratto di Clemente IX di collezione privata, assegnato alla mano dell’artista dallo stesso Bacchi: questo volto di arcana e indagatrice fissità forse avrebbe intrigato Francis Bacon spingendolo a una seconda maschera di sardonico orrore dopo quella imposta all’Innocenzo X di Velázquez.

È ancor più nella ritrattistica in marmo che l’elemento “epidermico” o pittorico della scultura berniniana viene per così dire in avanti come effettiva rappresentazione della psiche del personaggio immortalato. Scipione o Costanza, ma soprattutto i papi, Alessandro VII o Clemente X. Fin dalle prime considerazioni in catalogo Bacchi ricorda che la novità o per così dire la differenza che connota la scultura dei Bernini, padre e figlio, è che il primo vuole scolpire un’opera che nello spazio trovi il panopticon che consente di girarle intorno come se dovessimo coglierla in movimento; mentre il secondo, mago illusionista, vuole che guardiamo ogni opera da un punto preciso, come accade nella pittura, il cui punto di vista più o meno frontale ci è imposto.

Mi è capitato di evocarne il nome più volte quando si tocca l’argomento dell’arte secentesca, ma il testimone più favorevole all’arte di Gian Lorenzo, forse, sarebbe proprio un francese, quel Roger de Piles che nel Trattato sul colorito pubblicato anonimo qualche anno dopo la visita parigina di Bernini, condanna Poussin perché la sua pittura ha fatto della carne una pietra, e celebra Rubens perché ha saputo rendere alla pietra la verità della carne. È un contrappunto che avrebbe calzato anche per Bernini, scultore pittorico o pittore plastico (e architetto totale); certo è che la sua scultura sembra fare di tutto per rendersi vitale come la carne dell’uomo e leggera e soffice come una pietra da sciogliere attraverso l’occhio. Come la psiche.

Roma, Galleria Borghese

BERNINI

Fino al 4 febbraio

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