martedì 10 ottobre 2023
Il 90enne compositore americano, pioniere dell'elettronica, racconta la sua rivoluzione estetica e il 16 ottobre a Biennale Musica presenta “As I Live And Breathe”: «la metafora della mia vita»
Morton Subotnick performa live a New York con le immagini di Lillevan

Morton Subotnick performa live a New York con le immagini di Lillevan - Biennale Musica

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Morton Subotnick, 90 anni compiuti lo scorso aprile, non ha ancora smesso di giocare con la musica e l’elettronica. È considerato uno dei padri di una rivoluzione estetica prima ancora che tecnologica. Ha commissionato e sviluppato il primo sintetizzatore, il Buchla (dal suo costruttore, Don Buchla), realizzato nel 1963, esattamente sessantanni fa: un complesso groviglio cavi, manopole e interruttori che, per chi è abituato alla levità di un touchscreen, ha forse il profumo della fantascienza vintage. Con un Buchla nel 1967 Subotnick ha realizzato per la Nonesuch Silver Apples of the Moon, la prima composizione di musica classica ed elettronica scritta appositamente per il formato discografico. Un grande, inatteso successo con altrettante inattese ricadute, al punto che Subotnick, per una sorta di eterogenesi dei fini, è considerato uno dei numi tutelari della techno. Morton Subotnick il 16 ottobre sarà uno degli ospiti di Biennale Musica, che nella terza edizione curata da Lucia Ronchetti è dedicata alla musica elettronica. Il compositore arriva per performare dal vivo in prima europea As I Live And Breathe, con l’intervento in tempo reale dell’artista visivo Lillevan: «Tra il 1961 e il 1980 – spiega – ho dedicato la parte principale del mio lavoro compositivo allo sviluppo in senso artistico della musica elettronica, pensandola destinata non tanto all’esecuzione pubblica quanto alla registrazione per la fruizione domestica, un nuovo tipo di “musica da camera”. Quindi ho iniziato a creare brani per strumenti ed elettronica e progetti multimediali di grandi proporzioni. Infine, grazie allo sviluppo tecnologico, è diventato possibile portare l’attrezzatura sul palco ed eseguire i brani in pubblico. Penso che As I Live And Breathe sia il compimento della mia attività performativa in pubblico. Si apre con il suono del mio respiro, amplificato da un microfono, quindi un po’ per volta la musica e le immagini si sviluppano in lunghe frasi in continua trasformazione. Considero As I Live And Breathe una metafora della mia intera vita, in musica».

Maestro Subotnick, questa è la seconda volta per lei a Biennale Musica. La prima fu nel 1963...

«Venni grazie a Luciano Berio, che insegnava al Mills College di San Francisco. Divenimmo ottimi amici e lo introdussi al San Francisco Tape Music Center, che avevo cofondato con Ramon Sender. Io ero un eccellente clarinettista, all’epoca scrivevo per strumenti tradizionali e giungi a Venezia con un brano “classico”. Ma proprio allora iniziavo a pensare alla musica elettronica, a come sarebbe dovuta essere e in quale direzione potesse andare».

Il mezzo elettronico richiede un diverso modo di pensare la musica?

«È un punto fondamentale. Con Berio e Maderna abbiamo parlato molto della musica elettronica del futuro. Il loro approccio era più o meno quello francese: realizzare in studio attraverso un microfono dei pezzi destinati alla radio. In generale i miei colleghi, come anche Stockhausen, cercavano di adattare la musica postweberniana al medium elettronico. Io avevo un approccio diverso. Da strumentista avevo una percezione diversa, sentivo che gli strumenti musicali tradizionali erano stati i vettori attraverso cui i compositori avevano imparato a muovere la musica in avanti. E sentivo la linea degli altri come una nuova versione del vecchio. La nuova tecnologia richiedeva una «new “new music”», una nuova “nuova musica”. E così ho capito che dovevo entrare nell’elemento tecnologico e contribuire a costruire nuovi strumenti che fosse totalmente incarnati nell’idea musicale. E questo era il punto sessanta anni fa. Trovare una nuova musica che arrivasse dalla tecnologia».

Cosa l’ha affascinata della musica elettronica?

«Vorrei chiarire un equivoco, in cui mi sono abbattuto molte volte: io non faccio musica elettronica, ma musica con l’elettronica. L’elettronica costringe a pensare dall’inizio, da prima del suono. È come il pittore che non ha il colore pronto ma lo ottiene mescolando diversi elementi: e questo, tornando alla musica elettronica, è il puro aspetto sonico. Poi c’è il gesto del dipingere, che io associo all’inviluppo, che investe il suono sotto molteplici parametri e aspetti. L’inviluppo è insieme ampiezza e timbro, in cui nessuno dei due “guida” l’altro. Quando canti sei forzato a usarli contemporaneamente, ma nell’elettronica li puoi separare e mescolare, così come puoi creare inviluppi multipli. È una cosa difficile da realizzare anche oggi, ma quando Don Buchla ha costruito il suo sintetizzatore non c’erano proprio macchine».

Quale ritiene essere la sua eredità?

«Sono molto felice che il Buchla sia entrato nella Library of Congress: io resterò ancora lì quando non ci sarò più. Ma questo non basta a rispondere alla sua domanda. Io credo che la gente all’inizio e a lungo non abbia davvero capito quello che ho cercato di fare. Il motivo per cui io sono diventato una sorta di figura paterna è perché solo le nuove generazioni stanno iniziando a capire ciò di cui parlo».

A suo avviso l’elettronica digitale è diversa dall’elettronica analogica?

»Per me è la stessa cosa. Usare la tecnologia ti cambia, e tu devi essere capace di cambiare la tecnologia, altrimenti diventa la tua padrona. Attraverso il digitale continuo a fare musica con l’elettronica. Torno alla metafora del pittore: ora dipingo e penso sul palco. La tecnologia mi permette di essere il compositore, il performer, il costruttore di strumenti. La musica, l’idea per la musica, cambia sempre: una forma aperta. È solo di recente che i processori sono diventati abbastanza veloci da poter essere connessi in tempo reale a modelli Buchla. Ormai sono riuscito a duplicare e moltiplicare in un computer tutto il mio studio e così posso fare musica “as I live and breath”, mentre vivo e respiro. Il digitale però spesso è usato in un altro modo. Vengono da me tanti giovani dicendo di fare musica digitale, mi fanno sentire i loro lavori, mi spiegano che programmi usano. Ma se chiedo loro come modificano suoni e parametri, mi rispondono che usano i preset di fabbrica. Quante persone avranno comprato un plug in da duecento dollari? Almeno diecimila persone. E tutte faranno la stessa cosa. Se vuoi fare una musica differente devi avere uno strumento che ti faccia pensare in modo differente».

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