mercoledì 6 giugno 2012
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Una bozza di epitaffio Ray Bradbury l’aveva lasciata circolare con largo anticipo: «Quando morirò - aveva dichiarato - mi piacerebbe che sulla mia tomba si scrivesse "Qui riposa uno che raccontava storie"». Che quello dello storyteller fosse il suo destino l’aveva capito fin da ragazzo, appassionandosi ai classici del cinema muto e più ancora ai fumetti di Buck Rogers, nei quali la conquista dello spazio era presentata nei toni ingenui ed entusiasti di una favola possibile. Rimanere fedele alla propria infanzia è stata, in definitiva, la grande virtù di Bradbury, morto ieri a Los Angeles (era nato a Waukegan, nell’Illinois, il 22 agosto 1920). In una strepitosa pagina autobiografica, sosteneva di aver conservato i numeri di telefono dei compagni che, negli anni della Grande Depressione, si beffavano della sua mania per le astronavi. Poi, in una sera d’estate del 1969, mentre il primo uomo passeggiava sulla Luna, li aveva chiamati uno a uno, i bulletti di una volta. «Sono Ray, ti ricordi?»,  aveva scandito nella cornetta. E giù una risata, tanto per far capire chi, da sempre, aveva avuto ragione.Autore straordinariamente prolifico, Bradbury ha legato il proprio nome a due titoli risalenti a oltre mezzo secolo fa: Cronache marziane (1950) e l’ormai proverbiale Fahrenheit 451 (1953), che lui stesso si compiaceva di definire a dime novel, intraducibile gioco di parole che gli permetteva di alludere al debito contratto verso i romanzetti da dieci centesimi divorati durante l’adolescenza e al fatto che la prima stesura del libro era stata portata a termine introducendo monetine su monetine in una macchina per scrivere messa a disposizione da un ente benefico. Era nata così l’avventura indimenticabile di Montag, il vigile del fuoco che in un non rassicurante futuro disobbedisce alla regola suprema: quella per cui i libri non vanno letti, ma dati alle fiamme. Di solito, Fahrenheit 451 (il titolo si riferisce alla temperatura di autocombustione della carta) viene considerato un’apologia della letteratura, ed è anche questo, non ci sono dubbi. Ma si tratta anche di un romanzo dichiaratamente politico, precoce nell’indicare i rischi di una dittatura mediatica e spietato nel denunciare l’inganno della spensieratezza obbligata dietro la quale si nasconde la minaccia della guerra.Con altri autori della sua generazione (Robert Sheckley, Richard Matheson, sotto alcuni aspetti perfino l’Arthur C. Clarke di 2001: Odissea nello spazio), Bradbury è stato il portabandiera di una fantascienza umanistica che, nel suo caso, comportava un ostentato disinteresse nei confronti della precisione documentaria. Poco gli importava sapere se davvero Venere potesse essere un pianeta tanto esposto alle precipitazioni: a contare era solo il sentimento di coraggiosa disperazione con cui - in uno dei suoi racconti più belli, "Pioggia senza fine" - i terrestri avanzano sotto un diluvio incessante, sempre più consapevoli che lassù non c’è nulla da conquistare.Diffidente della tecnologia, al punto da osteggiare il web e da concedere solo di recente, quasi in articulo mortis, l’autorizzazione a pubblicare le sue opere in formato digitale, Brabdury è stato anche un intenso cantore della provincia americana, come dimostrano da ultimo le vicende incastonate in Addio all’estate (disponibile, come quasi tutti i suoi titoli, nel catalogo Mondadori). Con uguale frequenza lo scrittore era tornato sulle meraviglie del cinema così come l’aveva conosciuto da bambino, quando si era ritrovato a stringere amicizia con il coetaneo Ray Harryhausen, oggi considerato il padre degli effetti speciali hollywoodiani. Un amore non ricambiato, questo per il cinema, nonostante l’incontro con grandi registi quali John Huston (per cui Bradbury aveva sceneggiato Moby Dick) e François Truffaut, che da Fahrenheit 451 aveva tratto un film in cui l’autore non si era mai riconosciuto. Forse perché, per chiudere la vicenda, il francese aveva scelto un giro di frase tratto da un romanzo minore di Stevenson, mandato a memoria da uno degli uomini-libro che Montag incontra durante la sua fuga. Bradbury, per conto suo, aveva preferito che l’ultima parola l’avesse la Bibbia, con i versetti dell’Apocalisse che lo stesso "vigile del fuoco" ripete come una preghiera sotto un cielo da finimondo. Un cielo che però, per il vecchio-bambino Ray, era comunque abitato dalla speranza, dalla bellezza, dalla presenza invisibile di Dio.
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