lunedì 30 maggio 2022
Triestino di lingua slovena, aveva 108 anni. Visse in prima persona e trasfigurò in grande letteratura la repressione fascista e i conflitti mondiali. Il vescovo Crepaldi: «Difese la dignità umana»
Lo scrittore triestino Boris Pahor (1913-1922)

Lo scrittore triestino Boris Pahor (1913-1922) - Ansa

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Il tempo trascorso nei campi di concentramento e la fame patita da bambino l’avevano reso quasi immortale. Invece se n’è andato anche lui, spegnendosi nelle prime ore di ieri nella sua casa che da Trieste porta al Carso, affacciata sul blu dell’Adriatico, dopo una vecchiaia che sembrava non finire mai. Nell’agosto prossimo avrebbe compiuto 109 anni. Nessuno come Boris Pahor ha solcato gli ultimi due secoli della storia europea attraversando confini fisici e spirituali, e riuscendo a dilatare la memoria del ’900 fino ai giorni nostri.

Sloveno di cittadinanza italiana, nato a Trieste nel 1913 quando la città faceva ancora parte dell’Impero asburgico, ha vissuto in prima persona e trasfigurato in grande letteratura alcuni degli orrori del nostro passato recente: la repressione fascista della Venezia Giulia, i due conflitti mondiali, l’esperienza nei campi di concentramento nazisti, infine l’ostracismo comunista ai tempi di Tito. Non aveva ancora compiuto sette anni, il 13 luglio del 1920, quando dalle finestre del seminterrato dove abitava nel centro di Trieste vide il cielo farsi rosso sangue. Si precipitò fuori con sua sorella e vide per la prima volta l’inferno. I fascisti avevano dato fuoco al Narodni Dom, la Casa della cultura slovena. "L’orrore attecchì in modo pervicace in qualche angolo della mia coscienza e ci vollero anni per rimuovere lo choc", scrisse tanti anni dopo. L’episodio che segnò l’inizio del terrore contro la minoranza slovena della Venezia Giulia travolse anche lui, scavando un solco indelebile nella sua infanzia. Da quel momento in poi sarebbe stato testimone diretto della soppressione delle scuole e della lingua slovena, dell’assimilazione coatta, dell’espulsione e dell’internamento degli intellettuali.

Negli anni della giovinezza, quelli in cui i fascisti cercarono di annientare l’identità culturale degli sloveni triestini, trascorse persino una lunga esperienza in seminario, proseguendo gli studi di teologia fino all’età di 25 anni. "Ma non ho mai pensato di prendere gli ordini", ci confermò in un’intervista rilasciata ad "Avvenire" alcuni anni fa. Affermava di avere un’anima panteista, di essere cioè religioso ma non credente e di essere diventato ateo durante gli anni del lager. Richiamando Spinoza e Einstein ci spiegò che "di fronte all’infinitezza dell’universo mi inchino e capisco di non essere nessuno, di non contare niente". Nel 1940, poco dopo essere uscito dal seminario, era stato arruolato nel Regio Esercito e inviato sul fronte libico. Si sarebbe imbattuto di nuovo, stavolta da soldato, nella fame che aveva già conosciuto durante l’infanzia, ai tempi della Prima guerra mondiale. Dopo l’armistizio del 8 settembre era tornato nella sua Trieste, ormai sotto l’occupazione tedesca, iniziando a collaborare con la resistenza antifascista slovena. Anni dopo descrisse quei giorni in uno dei suoi primi romanzi, Mesto v zalivu (mai tradotto in italiano), il libro che lo rese celebre in Slovenia. Nel 1944 fu catturato dai nazisti e internato in vari campi di concentramento in Francia e in Germania (Natzweiler-Struthof, Markirch, Dachau, Dora-Mittelbau, Nordhausen, Harzungen, Bergen-Belsen). Trascorse quattordici mesi in lager, un’esperienza che avrebbe poi raccontato nel suo capolavoro, Necropoli, l’opera che gli è valsa un posto tra i grandi della "letteratura dello sterminio", accanto a Primo Levi e al Nobel ungherese Imre Kértesz.

Dal Dopoguerra si dedicò all’insegnamento e alla scrittura, diventando ben presto uno dei protagonisti della scena culturale slovena. Strinse un profondo rapporto di amicizia e collaborazione con uno dei più noti dissidenti del regime socialista di Belgrado: il grande poeta cattolico Edvard Kocbek. Insieme a lui iniziò a denunciare gli orrori della Jugoslavia di Tito e venne per questo bandito dal paese. Scrisse decine di opere che sono state tradotte in tutto il mondo, tutte di contenuto sociale e rigorosamente scritte in sloveno per scelta identitaria, molte di esse legate a esperienze di vita vissuta. In Italia ha ottenuto un successo tardivo in parte ripagato da una straordinaria longevità che lo ha reso uno straordinario testimone della storia. Un tema che ricorre in gran parte dei suoi libri è la distruzione dell’identità del suo popolo, un dramma che ha patito in prima persona anche nella seconda parte del ’900, quando non riuscì in alcun modo a trovare un editore italiano disposto a pubblicare il suo capolavoro, Necropoli. Lo inviò a Primo Levi ma anni dopo venne a sapere che non gli era mai stato recapitato, "perché all’epoca un autore tradotto dallo sloveno non poteva avere un editore in Italia". L’opera, uno straziante viaggio autobiografico nella memoria dei suoi giorni trascorsi nel lager francese di Natzweiler-Struthof, uscì per la prima volta in Slovenia nel 1967 ma dovettero passare decenni prima che fosse scoperta e tradotta da un piccolissimo editore locale, il Consorzio Culturale del Monfalcone. Solo nel 2008, oltre quarant’anni dopo la sua prima stesura, uscì finalmente in Italia con una distribuzione nazionale per Fazi, con la traduzione di Ezio Martin e la prefazione di Claudio Magris. In quel libro - oggi tradotto in decine di lingue - è riuscito raccontare gli orrori del lager senza alcun sensazionalismo, quasi con distacco, rappresentando con forme espressioniste la corporeità degli internati e restituendo dignità ai malati ospitati nell’infermeria del lager. Mentre nella Jugoslavia socialista le sue opere erano condannate e messe all’indice per le sue critiche nei confronti del regime di Tito, tutto il mondo riconosceva la sua grandezza attribuendogli i più premi prestigiosi letterari e candidandolo più volte al Nobel.

Profondamente sincero e coerente con le sue idee, consapevole del suo ruolo di memoria storica del ’900 e di grande testimone di libertà, Pahor ha sempre sentito il dovere morale di denunciare la deriva etica dei nostri tempi mettendo in guardia le giovani generazioni sul male che ha attraversato il XX secolo. Talvolta anche adottando posizioni che potevano risultare scomode. Anni fa non esitò a criticare la legge che istituì il Giorno del Ricordo, perché a suo dire rendeva onore alle vittime delle foibe e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata senza menzionare esplicitamente i crimini commessi in precedenza dall’Italia fascista sulle popolazioni slave. Era un concetto che gli stava particolarmente a cuore e che ebbe modo di ribadire spesso, sia negli incontri pubblici che scrivendo di suo pugno al Quirinale, prima a Napolitano e poi a Mattarella. Nel luglio 2020, in occasione del centenario dell’assalto fascista alla Casa della cultura slovena di Trieste, ottenne infine la doppia onorificenza italiana e slovena. Fu il risarcimento tardivo a un uomo che si era sempre battuto per la verità e la giustizia, contro ogni abusi di potere.

Commemorandone la figura, il vescovo di Trieste Giampaolo Crepaldi ha infatti rimarcato che si è trattato di «un'autorevole personalità della minoranza slovena che vive in queste nostre terre, alla quale diede voce con la sua qualificata produzione letteraria tutta tesa a denunciare gli orrori del cosiddetto secolo breve, dalle guerre al nazionalismo esasperato, dalle violenze etniche ai totalitarismi ideologici. Lascia a Trieste la preziosa eredità di luminoso difensore della dignità umana e di testimone coraggioso della libertà».

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