lunedì 1 giugno 2020
In Italia installò la passerella sul lago di Iseo
Christo

Christo - Ansa

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L'omaggio, voluto per annunciarne la morte domenica scorsa a New York, ma anche involontario per quel sottinteso che a volte si crea nelle parole, è nel titolo del comunicato stampa con cui il Centre Pompidou di Parigi si rende partecipe dell’evento luttuoso: Disparition de Christo. È la sua ultima opera: la scomparsa di se stesso dopo che per una vita intera aveva ripetuto, con la moglie Jeanne–Claude, quelle sue performance che consistevano nell’impacchettare un monumento, un edificio, un oggetto. Ma in realtà in autunno Parigi lo aspettava per una grande iniziativa e la capitale francese si sarebbe risvegliata un bel giorno col suo simbolo monumentale impacchettato, l’Arco di trionfo.

Era dagli anni Sessanta che Christo Vladimirov Javacheff, per la vasta platea di quelli che popolavano le sue messinscena semplicemente Christo, impacchettava qualcosa; all’inizio, a Parigi, dove nel 1958 conobbe la futura moglie e coprotagonista delle sue creazioni, si trattava di oggetti più o meno comuni: una poltrona, una corrozzina per neonato, i bagagli sul portapacchi. Un linguaggio nuovo, che rese partecipe Christo dell’esperienza del “Nouveau Réalisme” teorizzato dal critico Pierre Restany. Ma poi, ereditando una inclinazione che caratterizzava la didattica artistica nell’accademia del suo paese d’origine, la Bulgaria, dove era nato a Gabrovo il 13 giugno 1935 (stesso giorno e anno della moglie); ecco, trasformando quell’afflato che legava alla terra chi nasceva nei paesi dove il mondo agricolo era ancora dominante, fu forse naturale per Christo portare il suo sguardo su uno spazio più vasto, ambientale, ed entrare in quell’orizzonte creativo allargato che incide direttamente la realtà naturale con un segno “antropico”: ecco, così, il far parte della Land Art.

La prova del fuoco venne negli anni Settanta quando con la moglie progettò e realizzò tra il 1972 e il 1976 una recinzione “infinita” e continua che serpentinava su e giù per le colline da est a ovest, poco lontano da San Francisco, distendendosi per circa quaranta chilometri nella campagna californiana, Running Fence, una recinzione che correva nel paesaggio a cui erano appesi enormi teloni bianchi di nylon sospesi a un cavo d’acciaio che portavano, nel contrasto col verde dei campi, il segno umano, la sua incredibile ampiezza, ma anche una irriducibilità della forma alla retorica del monumento. Era qualcosa che sfuggiva al possesso accentratore dell’occhio e suscitava il senso dell’infinitezza del gesto libero.
È questo il punto di crisi che l’intervento di Christo pone sempre in luce quando interviene a scala urbana o ambientale: l’antimonumento con cui egli nega, occultandola, l’immagine retorica entrata nella memoria collettiva – per esempio, l’impacchettamento della statua equestre di Vittorio Emanuele II in piazza Duomo a Milano nel 1970, ma anche, venticinque anni dopo, del Reichstag a Berlino –, cioè rendendo ancor più presente il monumento sottraendoci l’iconografia e la memoria che lo rendeno ormai un “luogo comune”.

Mi chiedo da dove venga a Christo l’intuizione del potere mitico che si rivela nell’occultare i centri della memoria collettiva, ciò che un popolo, una società, una cultura rimette ai significati della propria storia. Quand è che si compie quel gesto solitamente? Ricoprire un oggetto o un mobile con un telo, un lenzuolo, una coperta... Accade in genere quando si decide di abbandonare per un lungo periodo una casa e si ricopre tutto il mobilio perché non prenda polvere. Che visioni spettrali e al tempo stesso affascinanti quelle dove una stanza ti appare all’improvviso occupata da forme bianche non proprio anonime, che sembrano immobili fantasmi. E in effetti sono le case disabitate e impolverate quelle dove i fantasmi si danno appuntamento per riprendere possesso di luoghi dei quali, prima di trapassare, come esseri viventi hanno fatto la storia abitandoli, con le loro mille azioni che giorno dopo giorno hanno riempito gli spazi, ma anche coi segreti delle relazioni umane, non sempre edificanti, qualche volta tormentanti. Ecco, il pacco è l’abito che consente alla storia di rendersi più presente in assenza dell’immagine, assai più di quanto questa poteva fare chiusa ormai nella retorica di un oggetto che è davanti agli occhi di tutti da tempo immemorabile ma che, molto probabilmente, non parla più ai presenti come faceva quando venne mostrato la prima volta.

Il Reichstag, sul piano della memoria collettiva tedesca, ne è proprio l’esempio più forte e al tempo stesso più traumatico. Ricordo con che emozione si stava davanti alla televisione, nel 1995, a vedere i berlinesi che innauguravano quell’opera di Christo; un intervento che riusciva a trovare molti più significati di quanto avrebbe saputo realizzare un pittore con un quadro, un fotografo o uno scultore, una compagnia teatrale o di danza con le loro performance. Era l’edificio della storia germanica, dove parlamento equivaleva a “Reichtag” fin dal Sacro romano impero, e dove quel palazzo, costruito nell’anno dell’unità tedesca, il 1870, con l’avvento del nazismo venne quasi rimosso e poi gravemente vulnerato dai bombardamenti alleati.
Il Muro era caduto nell’89, la Riunificazione tedesca si era conclusa l’anno successivo. Immaginiamo che l’opera di Christo fosse stata inaugurata a ridosso di queste date per celebrare il grande evento: nel momento della festa, poteva forse facilmente sfuggire ai più che quella prossimità temporale avrebbe compromesso la vena antiretorica dell’intervento, costruendone una nuova dove occultare il Parlamento era come tirare un colpo di spugna sulla storia tedesca dimenticando che la Germania era stata privata della libertà e aveva ingaggiato una guerra tra le più distruttive che l’umanità abbia mai combattuto. Una bella favoletta, una assoluzione dalla responsabilità che investiva invece tutti i tedeschi, non solo i nazisti; oppure, i comunisti. Sì, perché andrà pur detto che l’elaborazione del lutto è durata mezzo secolo proprio perché la Germania dopo il nazismo si è sentita spaccata dalla cura sovietica e dal Muro (contro il quale Christo e Jeanne–Claude avevano realizzato nel 1962 a Parigi la loro prima opera di grandi dimensioni, Rideau de Fer, una barriera di barili d’olio che bloccò una via nei pressi della Senna, in segno di protesta). Era la famosa questione che già Karl Jaspers aveva posto come problema subito dopo la guerra invocando la colpa collettiva nella realizzazione dell’Olocausto.

Invece, cinque anni dopo la caduta del comunismo (il fratello totalitario del nazismo), Christo è come se avesse detto a tutti: ecco che cosa succede se il simbolo dell’autoderterminazione di un popolo e della sua democrazia viene tolto dalla scena, messo da parte, impacchettato. Non commettete di nuovo gli errori dei vostri padri. Aveva l’aspetto di una bellissima scultura argentata, come se avessero steso enormi lenzuoli sulle vette di una catena montuosa, forse perché la libertà è una vetta che si raggiunge con grande fatica e a volte ci viene tolta. Senza dirlo a parole, ma col semplice occultamento del simbolo, Christo rese eloquente ciò che la storia aveva provato a zittire mezzo secolo prima.

Quando penso al gesto di impacchettare, di stendere tende nel paesaggio per chilometri, oppure di sdipanare, come una tela di Penelope, un percorso di trenta chilometri dentro Central Park mettendo in successione migliaia di elementi trilitici arancione collegati da tendaggi dello stesso colore, mi domando da quali fonti vengano queste intuizioni. Il genio di Christo e la sua moralità sembrano avere un campo di gestazione che definirei “domestico”, nel senso della domus come luogo materno e femminile. Chi, nelle ricorrenze festive, prepara la casa, impacchetta i regali, definisce l’organizzazione del cerimoniale? Le donne, perché domina è padrona di casa, colei che – forse ancora con una accezione matriarcale – ha cura di ciò che deve essere protetto e salvaguardato dalle mire distruttive che vengono dall’esterno. L’arte–domina di Christo deve probabilmente molto alle intuizioni di Jeanne–Claude, che è morta nel 2009; lui era l’artista – i suoi bellissimi disegni di studio delle grandi installazioni venivano messi in vendita per reperire i fondi necessari alla realizzazione di quelle imponenti macchine. Ma l’organizzazione era nelle mani di lei, la compagna che oltre a essere nata lo stesso giorno era forse la sua tacita maieuta.

Confesso che la fortunatissima realizzazione del 2016 con le passerelle montate sul Lago d’Iseo, che attirarono quasi un milione e mezzo di persone venute apposta per camminare sulle acque, non mi era sembrata una delle sue opere più convincenti. Lo dissi, e lo ripeto ora, avvertendo che non ebbi l’occasione di recarmi sul posto e di fare quell’esperienza. Tuttavia mi sembrò che l’allusione poetica che lega il miracolo alla meraviglia dell’arte, in forza anche di quel nome, Christo, che forse gioca ironicamente sull’episodio evangelico – seguitemi, non abbiate paura di sprofondare nelle acque –, fosse un po’ troppo scoperta. In genere le reazioni furono entusiaste in chi percorse e si trovo con molti altri su quelle passerelle. Non aveva forse scritto Giambattista Marino: «È del poeta il fin la meraviglia / (parlo de l’eccellente e non del goffo): / chi non sa far stupir, vada alla striglia!». Che poi significa: il vero poeta è colui che sa suscitare nell’altro la meraviglia. Chapeau, dunque, a Christo, che così spesso ha saputo muovere gli animi dello spettatore comune, e non solo dell’habitué del Grand Tour.

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