venerdì 7 aprile 2023
Un ricordo del grande giornalista scomparso a 95 anni. Inviato storico di Indro Montanelli, collaboratore di “Avvenire” e “Luoghi dell’Infinito”, fu amico di Giovannino Guareschi e Marcello Candia
Giorgio Torelli, scomparso il 6 aprile a 95 anni

Giorgio Torelli, scomparso il 6 aprile a 95 anni

COMMENTA E CONDIVIDI

Cronista, così amava definirsi Giorgio Torelli, 95 primavere e una vita dedicata a raccontare le storie degli uomini, dai grandi protagonisti alle persone più semplici. Giorgio Torelli è morto la sera del Giovedì Santo. Il 6 aprile era nella sua casa di Milano circondato dalla famiglia: la moglie Carlina, medico, conosciuta sui banchi del liceo classico e unica donna della sua vita, i figli Stefano e Michele Arcangelo (la figlia Alessandra è morta nel 2020).

Giorgio nasce a Parma il 26 febbraio 1928. Studente di medicina lascia l’università nel 1954 per abbracciare il giornalismo, lo muove la grande passione per la cronaca e insieme il desiderio di metter su famiglia con l’amata Carlina. Tre mesi in redazione alla “Gazzetta di Parma” e poi un telegramma in rima lo invita nella grande città: «Ora la Notte emette il fischio / venga Torelli senza rischio / firmerà contratto a Milano: / molto lavoro e poco grano». Le parole di Nino Nutrizio, direttore del quotidiano della sera, vengono accolte e Milano diventa la sua seconda patria. Tanti i quotidiani e i settimanali per cui lavora, dal “Candido” di Guareschi a “Epoca”. Fonda nel 1974 con Indro Montanelli “il Giornale nuovo”, di cui è inviato di punta. Collabora a lungo con “Avvenire” e “Luoghi dell’Infinito”. Firma una trentina di libri e un romanzo, La Parma voladora.

La sua ricerca ha per orizzonte le storie belle, le persone buone, gli eventi che danno speranza. Insomma tutto quello che tiene unito il mondo e impedisce la dissoluzione e la vittoria del caos. Era uomo di grande fede e di una cultura straordinaria. Cultura di storia e di storie, in gran parte vissute, e di quel mondo che aveva conosciuto nel suo viaggiare da inviato. Era un campione della cultura popolare: la sua pagina “Eravamo una piccola città”, appuntamento domenicale con la “Gazzetta di Parma”, dal 2012 fino a settimana scorsa, raccontava il mondo parmense e la sua gente. E in dialetto ha voluto tradurre il Vangelo di Marco: Al Vangel äd Marco in pramzan dal sas, il parmigiano del “sasso”, la città storica.

Con Giorgio avevamo lunghe telefonate. Mi chiamava ed era subito festa: il suo parlare parmigiano era sempre gioioso, brillante e soprattutto vivo. A volte mi vedevo costretto a interrompere il suo profluvio per chiedergli una traduzione. Ma non c’era bisogno di traduzione per comprendere come la vita buona e felice scorresse nel suo raccontare infinito. Giorgio era un uomo dalle forti radici e dagli orizzonti che non conoscono confini. Dalle forti radici perché, anche se viveva a Milano fin dalla giovinezza, era sempre legato a Parma e alla sua terra, un legame di amore, una linfa che alimentava tutta la sua esistenza. Per lui la città natale è soprattutto la sua gente. Gente che ama la vita tanto da aver fatto del gusto un’arte, la difficile arte di saper coniugare il buono, il vero e il bello.

Scriveva nel numero monografico di “Luoghi dell’Infinito” (260, aprile 2021) dedicato a Parma: «Noi siamo noi. Lo furono mio padre artigiano e mio nonno contadino, genitore a baffi risoluti [come i suoi che portava con fierezza fin da giovane] di una barca d’undici figli e figlie. Entrambi indossarono la parmigianità di fatto e di elezione. Al mio signor nonno, già granatiere di leva a Roma nel 1873 e poi seminatore della nostra materna terra dai solchi avidi di complicità, dicevano “Arnést, Ernesto, dovete giocare al Lotto per tirar su una famiglia che non finisce mai!”. Non commentò. Scrisse a vernice la frase dell’orgoglio combattivo sulla cappa del camino di casa, con sotto la padella per la tavolata. La frase si è fatta massima e così risuona: “Ambo lavorare, terno seguitare”».

Quella frase è stata anche il motto della vita di Giorgio Torelli, e questo gli ha permesso di essere un uomo dagli orizzonti senza confini. Come inviato ha attraversato i cinque continenti, mosso da sete di conoscenza, dalla passione per gli uomini, da un’empatia che lo faceva entrare in rapporto anche con le persone più lontane per cultura, lingua, sensibilità. In questo abbracciare il mondo è stato accanto a missionari a cui lo legava una profonda amicizia, da Piero Gheddo a Baba Camillo a Marcello Candia. Scrivere era come respirare. Non si coglieva grande differenza tra il suo parlare e i suoi articoli: la parola, sia nella lingua madre sia in italiano, era sempre ricca, precisa, capace di esprimere l’essenziale e le sue sfumature. Ed era sempre una parola gioiosa. Anche quando raccontava le zone d’ombra e gli abissi dell’umano si scorgeva la luce della speranza e la fiducia nella Provvidenza.

Ora Giorgio Torelli è nella luce della Parola in tutta la sua bellezza, bontà e verità. Quella Parola che l’indomito cronista ha amato, cercato, declinato in tutta la sua vita. Da autentico e umile maestro.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: