venerdì 4 marzo 2011
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«Era un critico, nel vero senso del termine, Francesco Bolzoni». E nell’imperfetto del verbo si condensa con tristezza un addio, perché Francesco Bolzoni, critico cinematografico che su Avvenire ha scritto a lungo, dal 1971, ha finito ieri il suo cammino terreno (aveva 79 anni): e ai colleghi, smarriti per la repentina notizia, resta da ritrovare, per dargli un commosso saluto, il senso del suo lavoro e del suo stile. Perché la prima parola che viene alla mente, ricordando le sue recensioni meditate e serene, pur nella severità dell’impostazione, è "classico". Intendendo come tale un lavoro di analisi che di un film faceva un testo letterario e come un testo letterario raccontava trama e caratteri, qualità e difetti. Cercava appunto, in ogni storia che attentamente esaminava, lo stile dell’autore e degli interpreti, l’intonazione narrativa, il senso musicale del ritmo con il quale la vicenda si snodava attraverso le immagini. Lavoro attento e minuzioso, il suo, che non cedeva di fronte alla suggestione emotiva ma scavava a fondo nel film da analizzare e ne presentava aspetti spesso non evidenti ma precisi: soprattutto cercando, nelle sue conclusioni, il filo rosso di una moralità che lo spirito religioso animava di sicurezza. Un critico cinematografico classico e cattolico, se così si può semplificare. Attento a quello che ogni film poteva offrire allo spettatore e pronto a sottolineare, nel caso, distonie e problematiche: ben sapendo quanto l’immagine diventata storia possa incidere nello spettatore. Un lungo e paziente lavoro, il suo, condotto anche sulla Rivista del cinematografo e attraverso studi critici nei quali i maestri del cinema venivano collocati nella storia come artisti e creatori: fra gli altri, Quando De Sica era Mr.Brown, nel 1984, e I film di Francesco Rosi, nell’86. Raccolse anche le sue recensioni ne La barca dei comici, sempre dell’86, ma gli è soprattutto congeniale, perché rispecchia i suoi interessi, Emilio Cecchi fra Buster Keaton e Visconti, esame del "classico" nel cinema, quel cinema-arte destinato a restare nella storia e nella memoria. Un lungo paziente lavoro che oggi rimane come testimonianza di una passione illuminata dal gusto e dalla competenza, alimentata da una frequentazione costante, nella quale il cinema diventava spazio di vita e palestra di intelligenza e di cuore. I colleghi lo salutano con mestizia, ricordando la sua pacata figura in cui la calma si alimentava di serena sicurezza, e riflettono su quanto sia importante, per fare il bilancio di una vita e di una attività, poter concludere con un affettuoso sorriso di gratitudine. Alla moglie (che l’ha seguito in tanti festival) e al figlio, il nostro abbraccio più fraterno. «Papà – ci ha ripetuto ieri il figlio, dandoci la ferale notizia – ci teneva tanto al "suo" Avvenire». Che ora gli dice ancora una volta grazie, col cuore, per i suoi 40 anni di rigore e serietà.
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