giovedì 16 agosto 2018
La regina del soul è scomparsa a 76 anni a causa di un cancro. Non ha solo scritto la storia della black music ma è stata icona dell'emancipazione femminile. Nel 2015 cantò per Obama
Aretha Franklin (Ansa/Ap/Paul Sancya)

Aretha Franklin (Ansa/Ap/Paul Sancya)

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È morta Aretha Franklin, la signora del soul. Una delle voci più belle, innovative e amate nella storia della musica contemporanea, vera icona di emancipazione femminile tramite le sette note, aveva annunciato l’addio ai concerti già nel febbraio 2017: e il successivo rinvio del suo previsto album di commiato (prodotto da Stevie Wonder, aveva dichiarato) che avrebbe dovuto uscire mesi orsono e invece non ha ancora visto la luce, aveva fatto presagire il peggio a molti sulla recidiva del cancro che l’aveva colpita nel 2010.

Oggi con la scomparsa di Aretha Franklin si chiude definitivamente l’era delle grandi interpreti (tutte di colore) capaci di rinnovare suoni, temi e mercato della musica fra jazz, soul, gospel e r’n’b innalzandovi la donna quale protagonista assoluta ben oltre le abitudini più maschiliste dello show business, e però senza finire schiacciate da quelle convenzioni dell’industria (patinate o commerciali) che dagli anni Ottanta in poi hanno cannibalizzato in modi diversi figure anche notevoli, da Whitney Houston in giù.

Ma Aretha era di un’altra generazione e dunque come prima di lei dal jazz al gospel avevano fatto Ella Fitzgerald, Nina Simone o Mahalia Jackson, lei ha rivoluzionato soul, rhythm and blues e – pur solo sfiorandolo – il pop: da artista capace di far approdare a repertorio e classifiche del mondo intero ribellioni femminili non puramente esteriori; da portavoce di una sensualità femminile concreta e vitale ma mai però sfruttata o banalizzata; da creatrice di uno stile profondo quanto immediato che si declinava tra vocalità, presenza scenica, sound personale e coraggiose scelte degli argomenti cui prestare un’energia senza confini e quella sua emotività capace di stare al passo della tecnica in un mix espressivo ineguagliato fra emozioni e arte.

Aretha Franklin nasce il 25 marzo 1942 a Memphis nel Tennessee, ma con la famiglia si trasferisce presto a Detroit dove cresce coi cinque fratelli immersa nella musica, visto che il padre, il reverendo C.L. Franklin, fa cantare i figli in chiesa. Ed Aretha è una vera bimba prodigio del gospel: prende lezioni dalla grande Mahalia Jackson, conosce il gigante del primo r’n’b Smokey Robinson e ancora ragazzina incide diversi classici destinati a confluire in una mirabile raccolta sui suoi esordi, “The gospel soul of Aretha Franklin”.

Però non riesce a entrare nella mecca della black music dell’epoca, la Motown, e deve quindi spostarsi a New York e alla Columbia, dove nel ‘60 firma il suo primo contratto guardando ai già famosi Sam Cooke e Ray Charles: però non sortiscono effetti né il primo 45 giri (Never grow old) né il primo lp (Aretha); solo il singolo Rock-a-bye your baby with a dixie melody ottiene flebile riscontro, e solo nel tempo verranno riscoperti i suoi blues dell’epoca o il bel lp-tributo a Dinah Washington.

La fama invece arriva, dirompente e duratura, col passaggio alla Atlantic nel 1966: il primo squillo di tromba è I never loved a man (The way I love you) di inizio ’67, seguito da un lp omonimo punto di riferimento del soul e da hit dai grandissimi numeri, prima fra tutte Respect di Otis Redding che ad aprile ’67 annuncia al mondo un nuovo modo della donna di cantarsi e la grintosa, quasi sfacciata esigenza femminile di una definitiva emancipazione.

Il capolavoro di Carole King (You make me feel like) A natural woman sempre nel ’67 completa poi la più che riuscita ripartenza della Franklin, che fra Chain of fools e Since you’ve been gone si accampa nelle charts aprendovi una serie di 18 primi posti; e l’lp Lady Soul di marzo ‘68 la consacra in modo definitivo definendone pure la qualifica da inserire nei libri.

L’Aretha del ‘68/75, quella che vince ogni anno il Grammy tanto da far nominare il premio “Aretha Award”, è quella che ribalta le convenzioni del dire la donna in musica fra sensualità e rivendicazioni, e che dilaga con gli lp-gioiello Soul ‘69, Live at Fillmore West, Young gifted and black, Sparkle e il doppio Amazing grace che con due milioni di copie è l’album gospel più venduto di sempre. Aretha nel 2015 avrebbe cantato il celeberrimo brano anche davanti a papa Francesco, in occasione dell'Incontro mondiale delle famiglie a Philadelphia.

Ormai portavoce della black music tout-court, nonché per molti unica rivale delle provocazioni moderne di James Brown, la Franklin perde però mordente negli anni ’80 quando il fumo le abbassa anche la voce: sono i tempi di pochi lp memorabili (Who’s zoomin’ who?) e hit solo in duetto, con George Michael o Eurythmics. È però del 1980 una dei momenti che la consegnano alla memoria collettiva: l'interpretazione in pantofole e grembiule rosa di Think in The Blues Brothers di John Landis, tanto spassoso quanto grandioso tributo a quella che, in retrospettiva, è una civiltà al tramonto.

Ma l’icona Aretha si ripiglia a fine millennio anche grazie allo stop al fumo, quando entusiasma sostituendo Pavarotti in “Nessun dorma” ai Grammy ’98 e quando licenzia cd riusciti e moderni quali A rose is still a rose o So damn happy, con cui porta il totale dei suoi Grammy a 21.

Ormai forse appagata, dal 2003 in poi la Franklin si concede poco, fra un disco di Natale non riuscitissimo e un tentativo di autoprodursi (A woman falling out of love, 2011), il deludente tentativo di cantare le autrici di oggi datato 2014 e A brand new me del 2017, in cui abbinando la sua voce alla Royal Philharmonic Orchestra come fatto con Elvis i discografici licenziano uno sgradevole disco “postumo in vita”, purtroppo ad oggi anche l’ultimo di Aretha.

È solo quando l’artista si esibisce libera da ogni legaccio e con la spontaneità degli esordi, come quando canta Carole King davanti a Obama nel 2015, che si risente l’Aretha che ha cambiato la storia, la signora del soul e della black music moderna. Ed è quell’Aretha, quella dalla voce con timbro ricchissimo e vibrato unico, quella capace di complessità interpretative senza pari fra note tenute ed estese, è quella l’Aretha che rimarrà.

L’Aretha con una voce definita dallo stato del Michigan “meraviglia della natura” e resa ancor più unica da quel suo stile inedito che sfrutta l’emotività innestandola nella tecnica, per dar vita a performances innovative e ribelli da cui in qualche modo hanno attinto tutte coloro che sono venute dopo di lei: da Donna Summer a Roberta Flack, da Mariah Carey ad Anastacia sino a Joss Stone. Nonché a Mary J. Blige, con cui Aretha Franklin vince il suo ultimo Grammy nel 2007 spostando ben dentro il 2000 i confini di una ricerca espressiva che ha cambiato i connotati della musica nera facendo capire che anche una donna poteva nelle canzoni mettersi in gioco in toto, pure gridandovi di rispetto e libertà.

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