martedì 3 aprile 2012
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«Non volevo scrivere una testimonianza su un fatto d’attualità, ma estrarne tutta la potenza per ricavarne una finzione. Non ho indagato, ho creato. Mi sono liberamente ispirato in quanto, del fatto reale, ho conservato solo lo scheletro». Dissezione dei fatti e trasfigurazione poetica confluiscono nelle pagine di Laurent Mauvignier, fra i più originali scrittori d’Oltralpe. Il suo  Storia di un oblio (appena tradotto da Feltrinelli, pp. 64, euro 8.50), testo impressionante e inclassificabile contenuto in un’unica frase, diventerà presto in Francia pure uno spettacolo teatrale (Denis Podalydès) e un altro di danza (Angelin Preljocaj). Si tratta di una bolla in espansione satura di sensazioni e riflessioni. Che esploderà, certo, ma non senza aver prima abbagliato con iridescenze di pietà, passione morale, umanità. In un supermercato, un emarginato senza un soldo in tasca ha sete e beve una lattina di birra. Massacrato di botte da quattro vigilantes, paga con la vita. «Le tragedie classiche e i fatti di cronaca sono composti della stessa carne umana e possono tutti almeno aiutarci a comprenderci meglio, se non migliorarci». Il titolo originale del libro, «Ce que j’appelle oubli», suona come un manifesto. È il caso?«Spontaneamente, direi di no. Non ho questa pretesa. Ma riconosco che nel titolo c’è la volontà di additare l’indifferenza in cui il nostro mondo esclude alcuni, spingendoli ai margini. Il titolo designa questo luogo dell’indifferenza sociale, collettiva. Il personaggio sarebbe potuto uscire dall’oblio, o "ciò che chiamo oblio", incontrando qualcuno, forse l’amore. In ogni caso, rompendo il suo isolamento. Ma non gli sarà possibile, è catturato dalla violenza del nostro mondo». Cosa c’è di "politico" nelle sue intenzioni?«Viviamo in un mondo dell’ognuno per sé, d’indifferenza, competizione: "guai ai vinti", sembra dirci il nostro quotidiano. Questo piccolo libro è un modo di dire che dietro la storia di una morte atroce e banale, c’è un uomo che nessuno conosce. E di ricordare, con un gesto artistico semplice, che ogni vita è un immenso paese fatto di storie, memorie, sentimenti e relazioni, frustrazioni, speranze. C’è l’intera umanità nella vita di ciascuno. Scrivere è voler strappare l’uomo al nulla nel quale è gettato dalla nostra indifferenza. Questo, sì, è assolutamente politico».E se dovesse riassumere il contenuto in una sola parola? «Sarebbe probabilmente sacrificio. Ma un sacrificio non nel senso cristiano, poiché purtroppo questo sacrificio non riscatta nulla. La morte di questo sconosciuto è più un sacrificio nel senso arcaico: a esigerlo sono degli dèi voraci, di guerra, assetati, dèi antichi la cui bassezza e meschinità si riflettono nella barbarie e piccolezza umane. Il supermercato è una sorta di tempio antico. Vi si adora il vitello d’oro del consumo, e talora si sacrifica colui che infrange la credenza servendosi senza pagare. Rubare una lattina significa non rispettare il dio del consumo, non rispettare la legge. Il personaggio profana il falso dio e i cerberi allora si vendicano»Per la voce narrante, la vicenda si riconduce in fondo al «piacere» dei vigilantes. È la sua stessa chiave di lettura?«Individualmente, i vigilantes del racconto sono persone ordinarie. Ma l’ordinario dell’uomo è pure un mondo di frustrazioni e pulsioni. La psicoanalisi ci ha fornito qualche chiave, la storia ci ha dato fatti e prove. In tutti i miei libri, cerco di comprendere, dimostrare i meccanismi che regolano i comportamenti legati alla violenza. Ho scritto diversi anni fa un romanzo sul dramma dell’Heysel, sull’effetto di gruppo che produce questo sentimento di onnipotenza, offrendo a ciascuno l’impressione di potersi "sfogare", liberando la propria aggressività. È come se il gruppo permettesse di liberare troppo odio trattenuto, troppe tensioni, pulsioni odiose. Come se, in una sorta di comunione negativa, il gruppo permettesse a ciascuno di liberarsi della propria violenza. Ma è anche vero talvolta pure nei comportamenti individuali, e ciò può spesso ritorcersi contro di sé, ad esempio con il suicidio. Era il tema del mio primo libro, Lontano da loro [uscito in Italia per Zandonai]». Per comprendere l’oblio, occorre raggiungere o superare la soglia di un obitorio?«Scrivere sulla violenza, i traumi, o piuttosto l’onda d’urto dei traumi, è per me un modo d’interrogare l’umano, la sua fragilità, ma pure la sua forza, la sua sorprendente capacità di sognare, d’immaginarsi un futuro malgrado tutto. La potenza della vita malgrado la violenza del mondo. I miei libri parlano di questo. La resistenza della vita, in noi. E il lettore, quando supera la soglia dell’obitorio, è invitato a porsi questa domanda: come non lasciarsi vincere da quest’oblio degli altri, di sé, della vita».Fisicamente parlando, al centro della narrazione c’è un corpo. Uno scrittore può trovare la verità al di là del corpo?«Non so. Ma per me, il corpo si riconduce al fiato, perché la vita passa attraverso il fiato. E la stessa scrittura passa per il fiato. Anche per questo, c’è una sola frase, un respiro che tenta di resistere alla morte».
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