mercoledì 19 aprile 2023
Con “Il sol dell’avvenire”, in concorso a Cannes, il regista ritorna sulla storia della sinistra italiana ma anche sulla propria, artistica e personale. «È un omaggio al cinema che va controcorrente»
Una scena del nuovo film di Nanni Moretti

Una scena del nuovo film di Nanni Moretti - Alberto Novelli per Fandango e Sacher Film

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Così generoso, divertente e commovente – e nello stesso film! – Nanni Moretti non lo era mai stato. Lontanissimo dall’essere un film testamentario (e perché mai?) Il sol dell’avvenire, prodotto da Fandango con Rai Cinema, nelle sale da domani con 01 Distribution in 500 copie e poi in concorso a maggio al Festival di Cannes, è un’appassionata lettera d’amore al cinema e agli ideali traditi di una generazione, ricca di umorismo, tenerezza, autoironia e determinazione nel continuare a rivendicare passioni e antipatie.

Difficile procedere con ordine nel raccontare questo film dal sapore felliniano, che di cuori ne ha più di uno. Giovanni, interpretato dallo stesso Moretti, è un regista che insieme alla moglie Paola (Margherita Buy, nel sui quinto film con Nanni), una produttrice con cui vive e lavora da qualche decennio, sta girando un film sull’arrivo di un circo di Budapest a Roma nel 1956 e sui drammatici fatti di Ungheria. I protagonisti sono Silvio Orlando, giornalista dell’Unità e segretario di una sezione locale del Pci, e Barbora Bobulova, una compagna di partito, che sui carri armati sovietici hanno posizioni opposte: se il primo sostiene che non ci si può mettere contro il Pci, piuttosto meglio la morte, la seconda spinge perché Togliatti condanni la repressione in Ungheria.

Ma questa è solo una parte di Il sol dell’avvenire dove il Giovanni di Moretti, che strappa dal suo set il poster di Stalin perché era un dittatore, scrive anche una sceneggiatura tratta da Il nuotatore di Cheever, ma soprattutto sogna di realizzare un film sulla storia di una coppia di cinquantenni, con tante canzoni italiane, proprio mentre il rapporto con Paola non funziona più.

E poi ci sono le ossessioni per i riti, che devono essere sempre uguali, altrimenti le cose vanno male, l’odio per sabot e pantofole (non calzature, ma «una tragica visione del mondo»), gli attriti con gli attori, la passione per i dolci, per il nuoto e per i tanti ciak sul set, per le canzoni (De André, Noemi, Tenco, Aretha Franklin, Battiato, Dassin) spesso cantate in macchina, e per il ballo, mentre il monopattino ha preso il posto dell’iconica vespa nei sopralluoghi in una Roma notturna. Una vera chicca poi l’esilarante colloquio tra Moretti e alcuni dirigenti Netflix che non credono nel suo film.

«L’idea del film sul 1956 – racconta Moretti – è nata prima di Tre piani, ma poi abbiamo deciso di concentrarci sulla vita del regista. Ho sempre reagito andando contro l’onda. A metà anni 80, quando si realizzavano pellicole fintamente internazionali, che dovevano piacere a tutti e invece non piacevano a nessuno, ho creato la Sacher per fare film radicati nel territorio. Successivamente, quando con l’arrivo del Vhs cominciarono a chiudere le sale, io ho aperto il mio cinema. Quindici anni fa, quando gli esordienti non se li filava nessuno, ho iniziato la rassegna Bimbi belli. E ora, in un momento di difficoltà per le sale, faccio film per chi va al cinema. Sulle piattaforme vadano invece le serie».

E a proposito del cinema italiano aggiunge: «È vivo, di autori e di film ce ne sono, manca però la cura. Troppi film sono mandati allo sbaraglio, senza l’attenzione dovuta e il pubblico non capisce più cosa sta uscendo al cinema». A chi definisce Il sol dell’avvenire un film politico Moretti risponde: «No, tutti i miei film sono personali. Più personali» e sulla sua ultima opera aggiunge: «Tornano temi e personaggi che ho affrontato nel mio cinema precedente, ma la recitazione, la regia e la scrittura sono diversi perché con il tempo si cambia, magari di poco, ma nei decenni anche quel poco si riflette sul tuo lavoro».

C’è tutto Moretti infatti in questo film che vorrebbe riscrivere la storia italiana («La storia non si fa con i “se”? E chi l’ha detto?»), che condanna fermamente la violenza nel cinema, quella d’intrattenimento e senza peso, che invita a l’emulazione (parlando di un “incantesimo” di cui sono vittime tanti registi, il regista dice: «Vi metterete a piangere quando capirete cosa avete combinato»), e che a un finale mortifero, gradito ai produttori coreani convinti di vedere nel suicidio del funzionario PC la metafora della morte dell’arte, dell’amore, della politica, di tutto insomma, ne sostituisce uno che è una grande, commovente marcia, una parata di sorrisi lungo i Fori Imperiali che diventa un omaggio alla vita, chiamando a raccolta non solo tutti gli attori del film, ma anche quelli dei precedenti lavori dei Moretti.

Nell’utopia del regista, riassunta con sarcasmo in un cartello finale, Togliatti ha infatti condannato i carri armati in Ungheria, l’Italia ha detto no all’Unione Sovietica. «Un finale nato per caso, con quel saluto chiudo la prima fase della mia carriera a cui ne seguirà un’altra di 50 anni e forse anche una terza», scherza. Moretti affronterà la competizione sulla Croisette con il solito spirito. «Mi pare che il film sia molto atteso in Francia, anche li hanno scelto un titolo un po’ sarcastico, Vers un avenir radieux, un vecchio slogan della sinistra francese. È bello quando il pubblico vede un film in sala, ride e si commuove, ed è ancora più bello se questo avviene in mezzo a una platea enorme come quella di Cannes».

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