Il primo allestimento del “Giulio Cesare” secondo Montale - Piccolo Teatro Milano
Nata nel 1953 su richiesta di Paolo Grassi e di Giorgio Strehler per il Piccolo Teatro di Milano, la traduzione del Giulio Cesare di Shakespeare firmata da Eugenio Montale è rimasta finora inedita. Questo incontro del poeta col teatro shakespeariano esalta la maestria espressiva del futuro premio Nobel nel rendere la concentrazione, la tensione e il dinamismo del potente dramma storico senza che mai vada perduto il timbro peculiare del traduttore. Ricco di personaggi vivi, tormentati, a tratti colpiti da unaluce di grandezza, questo Giulio Cesare permette di assporare insieme la sapienza teatrale di Shakespeare e l’inconfondibile stile di Montale. La versione montaliana, riemersa dagli archivi del teatro milanese, vede la luce ora per le edizioni Interlinea (pagine 212, euro 18) a cura di Luca Carlo Rossi. Il volume verrà presentato domani, sempre al Piccolo nel Chiostro Nina Vinchi (via Rovello 2) con Enrico Reggiani e letture di Daniele Di Pietro.
Troppo confortevoli e sbrigative le consunte formulette retoriche (paronomasie) “tradurre/tradire” e “traduttore/traditore”. Troppo semplicistiche, conformistiche, autoassolutorie, giustificazionistiche per chiunque (cioè tutti noi) sia coinvolto nella quotidiana condivisione della testualizzazione di una specifica esperienza - quale che sia la natura del “testo” composto (nel senso del “comporre” musicale), il canale della sua condivisione, il ruolo rivestito in tale processo, nonché l’obiettivo di tale processo. Se etimologicamente – come ho suggerito altrove – la metafora più contingentata del trascrivere indica “trasportare in altro foglio”, quella più estensiva del tradurre equivale, invece, a “condurre qualcuno da un luogo ad un altro”, presupponendo comunque e inevitabilmente per entrambi i luoghi (di partenza e di arrivo) un differente codice espressivo, un diverso orizzonte comunicazionale, un ulteriore cronotopo sociale e culturale, un irripetibile modello culturale e simbolico del mondo ecc.
Inoltre, sul piano della pragmatica, tradurre – ad esempio – da un testo letterario a un organico performativo, dalla cornice personale e omogenea della fruizione individuale alla prospettiva collettiva e caleidoscopica della partitura drammaturgica, dal virtuosismo bidimensionale della lettura scenica alla quadrimensionale scena teatrale, richiede varietà alternative e/o complementari di risorse relative al pubblico e al suo coinvolgimento, alle più o meno esigenti dinamiche interazionistiche, alla tecnologia ipotizzata e/o effettivamente disponibile allo scopo, alle istituzioni culturali coinvolte e al loro effettivo contributo ecc. L’avvio, intenzionalmente impervio, di questa breve nota critica intende predisporre “i miei venticinque lettori” a un apprezzamento, metodologicamente adeguato, della pregevole raffinatezza di una fresca proposta editoriale di Interlinea Edizioni: l’inedita traduzione del Giulio Cesare di Shakespeare firmata da Eugenio Montale, nata nel 1953 su richiesta di Paolo Grassi e di Giorgio Strehler per il Piccolo Teatro di Milano, qui offerta al pubblico grazie alla intelligente cura dell’italianista Luca Carlo Rossi, che l’ha corredata di un prezioso apparato composto da introduzione, inserto iconografico, nota al testo e tre appendici.
Cosa rende meritevole di attenzione e di valorizzazione questo inedito montaliano rispetto agli innumerevoli tentativi di italianizzazione con finalità letterarie o performative che il Giulio Cesare shakespeariano ha conosciuto in saecula saeculorum? Cosa caratterizza questa testimonianza del protagonismo del premio Nobel per la Letteratura 1975 sul versante italico della shakespearofilia? Non è possibile annoverarla tra quelli di natura stricto sensu letteraria, i quali furono quasi certamente avviati nel 1756 con una versione intitolata Tragedia istorica […] tradotta dall’inglese in lingua toscana di Domenico Valentini (1690-1762), professtre sore di storia ecclesiastica all’università di Siena. Valentini è davvero un caso emblematico di questa tipologia di “mediatori letterari” del Bardo.
Pur non conoscendo l’inglese, nella sua Prefazione del Traduttore, egli non solo lamentava come fosse «molto comune l’opinione dei Letterati de’ tempi nostri, che il mestiere di traduttore sia troppo facile, e troppo servile », ma vi forniva la seguente confessione meritevole sul piano traduttologico e socioculturale di ben maggiore attenzione di questa sbrigativa citazione: «in quanto alla mia Traduzione sento molti disapprovarsi, che io preso abbia il titolo di Traduttore, perché a tutti è ben noto, ch’io a cagione del mio impaziente temperamento non intendo la Lingua Inglese, e che, alcuni Cavalieri di quella Illu Nazione [che “lo pagavano assai bene” per apprenderla], che perfettamente intendono la Lingua Toscana, hanno avuto la bontà, e la pazienza di spiegarmi questa Tragedia». La versione montaliana del Roman Play (finalmente e opportunamente) pubblicata da Interlinea non rientra neppure nella sparuta serie di tentativi di «mediazione letterario-performativa », simili a quello di Ernesto Rossi (1827-1896), attore, intellettuale e patriota che così si giustificò nel 1887: «senza badar all’eleganza del dire, come fa il Poeta stesso nel suo poema, io volli provarmi ad esser ligio, fedele al testo, e possibilmente non dire di più o di meno di quello che vuole l’autore ».
La sua “scoperta teatrale” del Bardo lo portò a denominare “Villa Shakespeare” la residenza livornese di famiglia e ad assumere – secondo Leonardo Bragaglia (1932-2020) – il ruolo benemerito di «suo grande divulgatore» impegnato in una «ambiziosa “missione”» che, secondo Marisa Sestito, finì tuttavia, nel Giulio Cesare, per avviare «una linea di sviluppo (negativo), nella crescente neutralizzazione della dimensione più evidente dell’opera, quella politica». Nella sua lettura traduttiva di questo capolavoro shakespeariano, Montale delinea, invece, in filigrana, una concezione realistica e umanissima di un «dramma ideologico in cui gli uomini incarnano principi più grandi di loro». Tale approccio non ha incontrato il completo favore né di un altro storico mediatore letterarioperformativo del Bardo come Agostino Lombardo, per il quale «il nostro grande poeta, nel lodevole tentativo di evitare la retorica, smorza eccessivamente i toni del linguaggio», né di una sua competente allieva, Marisa Sestito, che considera «la versione inedita di Montale […] fluida efficace, teatrale soprattutto, anche se in taluni punti scompare la pregnanza delle immagini».
In realtà, a ben vedere, anche se – come ben scrive Luca Carlo Rossi nella sua introduzione – «più che alle inclinazioni civili montaliane il Giulio Cesare si addiceva alle scelte politiche del Piccolo Teatro», il Grande Maestro del Rifacimento (come egli stesso definì la sua versione di tre sonetti shakespeariani) si muove su un terreno rispettoso, senza serv535s05, delle pressanti necessità performative del suo committente milanese, ma autonomo nella sua osservanza delle priorità imposte dal “testo poetico” (sì, per Montale è “poetico” anche il testo della drammaturgia shakespeariana), giacché «nessuna macchina teatrale può fabbricare o sostituire il valore poetico di un testo, può creare poesia dov’essa non è o dov’essa è svaporata per l’intervento di cattivi traduttori o di copionisti mal pagati».