venerdì 6 gennaio 2012
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Un uomo verso il fallimento che si batte male, non si apre, commette una serie di errori incredibili, forse soccombe. È un industriale quarantenne come tanti, interpretato da Pierfrancesco Favino. La moglie (Carolina Crescentini) lo sopporta, non riesce ad affrontarlo, vorrebbe tradirlo. La suocera, ricca e razzista, sogna possedimenti e difende senza scrupoli proprietà e buon nome di famiglia. C’è anche un avvocato disonesto e ci sono banchieri cinici che cercano di fregare i clienti bisognosi, operai disperati, romeni ai margini, cittadini angosciati. «Tutto questo è roba sordida, orrenda», confessa Giuliano Montaldo, che nel film L’Industriale, sugli schermi dal 13 gennaio, scatta una fotografia livida della società italiana, malata.Il film l’ha voluto più il Montaldo regista o il Montaldo cittadino indignato?Quando siamo precipitati in questo disastro economico frutto di una politica sgangherata, ho pensato alle tante piccole aziende nel cosiddetto nord-est create in tempi recenti da operai che avevano convinto altri operai a costituirsi in società. La crisi ha prodotto fallimenti, disastri umani, suicidi. Pensavo all’umiliazione che poteva aver colpito un uomo a capo della sua piccola azienda, quando si trova costretto a dire: non vi posso più pagare, sono fallito. Con Vera, mia moglie e collaboratrice, ci siamo indignati ascoltando questi racconti e ci siamo immaginati la storia di Nicola, il nostro industriale, figlio di un immigrato pugliese in Piemonte, che dal padre riceve l’eredità di una fabbrica e sente una responsabilità fortissima mista all’orgoglio del Sud, testardo e eccessivo. Una storia nata dall’incontro con Andrea Purgatori, sceneggiatore che è anche un saggio giornalista e ci ha aiutato a scavare nel momento drammatico che stiamo vivendo.Una storia che sembra tratta dalla cronaca di questi giorni.Tutto a Torino esiste davvero. La fabbrica occupata all’inizio si trova a Pinerolo, non è dismessa, funziona. Quando l’abbiamo "arredata" per le riprese, è scoppiato l’allarme, la fantasia è diventata realtà, famiglie intere si sono spaventate. Il fatto ci ha toccato il cuore, ci ha dato il polso del momento critico. Per le vie di Torino la gente ci aiutava per le riprese chiudendo le imposte, spegnendo le luci, dando l’immagine di un’angosciosa attesa, della fine di un’epoca.Nel suo film la città è scura e vuota. E l’angoscia si percepisce anche dalla scelta della fotografia di Arnaldo Catinari.Poche macchine, poco traffico, poca gente. Una città spenta, perché è la paura, qualche cosa di devastante, quasi surreale, che dà l’idea della crisi incombente. In sottofondo, le voci che chiedono: «lavoro, lavoro...».  Siamo nel nord, d’inverno, e la luce dura poco. Non potendo girare in bianco e nero, ho chiesto che le tonalità vi si avvicinassero il più possibile. È il deserto cittadino. L’angoscia deve rimanere nello stomaco dello spettatore.Una società che si barcamena tra il lecito e l’illecito.L’industriale incontra ogni genere di personaggi subdoli e illeciti. È facilissimo cadere nelle loro trappole. Lui però ha la fotografia del padre dietro la sua scrivania: è la parola data, s’intuisce che non può cedere ai ricatti, a questa deriva morale. Fa una curva umorale, si chiude di fronte a tutti – la moglie, i collaboratori, gli amici – si smarrisce, però non cede. Arriva perfino a credere di aver ricucito con la moglie, eliminato il problema, salvato l’azienda. Alla fine, però, scoppia il dubbio: scelgo il bene o il male, vado verso la giustizia o il crimine?I suoi film conservano sempre l’impronta di una tensione morale.Ancora oggi porto nelle scuole Sacco e Vanzetti e L’Agnese va a morire. Perché sono storie che sono rimaste e per questo continuano a viaggiare. L’obiettivo che hanno i miei film è di aprire di poco una finestra, uno spiraglio, per avere una conoscenza maggiore dell’uomo e della società. Se vuoi, quella finestra puoi spalancarla. E accorgerti che, là fuori, c’è molto di più di ciò che credi.
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