mercoledì 30 agosto 2017
Nel docufilm “La principessa e l’aquila”, Otto Bell racconta il talento di una giovanissima kazaka: «Una storia di emancipazione»
Mongolia, il volo libero della piccola Aishoplan
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«Non puoi scegliere il momento in cui la tua più grande avventura avrà inizio. Non puoi scegliere una data o programmare un itinerario. Questa è la prima lezione che ho imparato mentre giravo La principessa e l’aquila ». Così ci racconta Otto Bell, documentarista newyorkese folgorato dalla storia della tredicenne kazaka Aishoplan, che tra i monti Altai, nell’estremo nord-ovest della Mongolia, ha deciso di diventare una cacciatrice e un’addestratrice di aquile, sfidando una tradizione millenaria esclusivamente maschile che si tramanda di padre in figlio. Sotto la guida esperta di suo padre, superando ogni ostacolo, la ragazzina ha imparato ad accudire la sua aquila e a farla volare, fino a dimostrare tutto il proprio talento partecipando e vincendo il Festival annuale che mette in competizione i più grandi addestratori della Mongolia. Questa storia vera è diventato un documentario, raccontato dalla voce di Lodovica Comello, distribuito nelle sale il 31 agosto da I Wonder dopo aver partecipato al Sundance, alla Festa di Roma e al Biografilm. Il regista ripercorre con noi le tappe della sua straordinaria avventura realizzata con un budget di 100mila dollari, tutti i suoi risparmi.

Come ha scoperto questa storia straordinaria?

«Non sapevo nulla della tradizionale caccia alle aquile in Mongolia, ma un giorno, comodamente seduto nel mio ufficio, ho visto delle bellissime foto sulla Bbc. Quelle immagini mi hanno colpito emotivamente, erano bellissime, sembravano dei dipinti. Da tempo cercavo materiale per un documentario e quelle fotografie contenevano gli ingredienti principali di quello che pensavo sarebbe stato un grande film, ambientato in uno straordinario scenario, in un luogo remoto nella zona meno popolata della terra, alla fine del mondo, insomma. Nel mezzo di una foto c’era quest’aquila gigantesca, di una grandezza quasi preistorica, e con lei Aishoplan, una ragazzina bellissima e forte. L’ho contattata su Facebook, abbiamo parlato su Skype e dopo pochissimo ero su un aereo diretto in Mongolia per parlare con la famiglia sulla possibilità di realizzare questo film».

E come è stato accolto?

«Il giorno del mio arrivo ero molto nervoso, ma il padre di Aishoplan mi ha subito detto: “Stiamo andando a prendere un’aquila in montagna, vuoi venire e filmare?”. Mi sono buttato a capofitto in questa avventura anche se non ero ancora pronto. Nel primo pomeriggio di riprese Aishoplan si è arrampicata sulla montagna, io e il fotografo con lei, mentre il cameraman che aveva paura dell’altezza non è venuto. Ci siamo avvicinati al nido cercando di restituire varie angolazioni. Non potevamo certo ripetere la scena due volte perché mamma aquila era proprio lì. Ci sono poi voluti poi nove mesi di montaggio per armonizzare tutte le riprese, ma niente di quello che vedete è una messa in scena».

Com’è riuscito a fare in modo che le persone intorno a lei dimenticasse la presenza della videocamera?

«Ogni anno arrivano avventurosi turisti da quelle parti, trascorrono qualche notte con le famiglie che sono quindi abituate al contatto con occidentali. Io sono rimasto con loro molto più a lungo e dopo un po’ nessuno badava più a me. È stato però fondamentale il contributo di una operatrice donna, che ha trascorso tre settimane con la famiglia e la macchina da presa. Come uomo mi sarei perso delle cose, mentre lei ha potuto filmare anche nella scuola femminile e cogliere momenti molto intimi, importanti quanto le scene di azione come la cattura dell’aquila, l’addestramento, la competizione. Per realizzare il film sono stati necessari sei o sette viaggi e ogni volta che tornavo era sempre più facile. Ora giro il mondo con Aishoplan, siamo una famiglia e due mesi fa lei è venuta anche al mio matrimonio».

È interessante che in una società così patriarcale un padre incoraggi la figlia in un’impresa mai tentata prima da una donna.

«Non volevo dipingere la Mongolia come un paese arretrato, lì ad esempio le donne votano da molto tempo e anche la madre di Aishoplan è una donna molto forte. In realtà ci sono state in passato alcune cacciatrici di aquile, ma nessuna di loro aveva mai partecipato alla competizione. Gli uomini hanno avuto difficoltà a metabolizzare l’idea che una ragazzina entrasse nel loro mondo, ma quando lei ha dimostrato quello di cui era capace, hanno cambiato atteggiamento. Con Aishoplan è dunque cominciata una tradizione e lo scorso inverno ci sono state altre tre donne cacciatrici al festival».

Il successo del film potrebbe stravolgere la vita di Aishoplan?

«Mi sono chiesto se il film avrebbe potuto turbare la vita di queste persone, ma non è stato così. Non ho creato una baby diva che non vede l’ora di trasferirsi a Hollywood, e la sua famiglia non ha mai abbandonato la casa che vedete nel film, in una zona dove il turismo sta cominciando a crescere insieme alle strutture. Quando abbiamo venduto La principessa e l’aquila al Sundance guadagnando un bel po’ di soldi abbiamo costituito una fondazione per l’istruzione di Aishoplan, che non vuole fare l’attrice ma il chirurgo e potrà studiare medicina in qualunque università del mondo. Per ora frequenta un’ottima scuola dove sta imparando anche il turco e l’inglese e dove sta costruendo il suo futuro con la stessa determinazione con cui ha addestrato l’aquila».

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