domenica 18 aprile 2010
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«Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, ha il potere di unire un popolo, come poche altre cose fanno». È una delle tante verità pronunciate dal Madiba, la grande anima del Sudafrica Nelson Mandela. E quel messaggio è arrivato dritto al cuore e alle menti illuminate di un gruppo di giovani operatori di Ong italiane che l’ha preso alla lettera. Così, dall’Italia, hanno deciso di organizzare una spedizione che attraversando l’Africa proverà ad unire almeno otto popoli, mediante lo sport più popolare, il calcio. Nello storico 2010, anno in cui il Sudafrica di Mandela si presenta al cospetto del pianeta con i suoi mondiali di calcio, c’è un pullmino carico di palloni, ma prima di tutto di speranze, che vuole vivere e viaggiare parallelamente a questo evento che coinvolge e mette al centro dell’attenzione tutto il continente nero. Come in Marrakesh Express di Gabriele Salvatores, il mezzo adottato per un viaggio solidale, quanto avventuroso, è il matatu che mangia la polvere delle strade africane e che può far salire a bordo fino a un massimo di 11 persone – una squadra di calcio –, ma che spesso laggiù, deve ospitarne molte di più e dare un generoso passaggio a tutti coloro che restano inesorabilmente a piedi. Nel pullmino bianco del progetto «AltriMondiali. To South Africa by Matatu» – organizzato dalle Ong lombarde CoLomba e Altropallone –, viaggeranno solo in sette. Sono quasi tutti under 30, tre italiani e quattro kenyani, per quella che si annuncia come la prima vera missione del «calcio for Africa». «Si tratta di un’idea che è venuta fuori parlando, tra amici: portare la nostra solidarietà utilizzando uno strumento universale e di grande coesione sociale come il calcio di strada, l’unico rimasto ancora autentico e pulito». È stata questa la scintilla, ci informa Luca Marchina «conducente di matatu», bresciano, da quasi 3 anni in Kenya presidente di Karibu Afrika. «Karibu, in lingua swahili vuol dire "benvenuto". E noi, con il nostro matatu che trasporterà palloni, porte da calcetto, maglie, pettorine e tirarighe per tracciare le linee del campo improvvisato, il benvenuto lo daremo a tutti quelli che ad ogni sosta aderiranno alle nostre partite». Il suo vice Francesco Riedo, da quattro anni attivo in Karibu non sta nella pelle: «Attraversando i paralleli verso sud, potremo arricchire la nostra conoscenza dei diversi volti dell’Africa, cercando di riscoprire nello svago del calcio il vero spirito di confronto, tra le persone e approfondire loro storie». Il terzo autista è Emiliano Corbetta, appena laureato in cooperazione per lo sviluppo, è l’unico della formazione italiana che ha esperienze di calcio giocato, per 17 anni nel Gessate. «Sono da tre mesi a Nairobi, ma è stato nel 2007, durante la mia precedente esperienza come volontario nella slum di Mathare, che mi sono convinto dell’importanza dello sport come strumento di integrazione sociale e di aggregazione giovanile». Il loro viaggio fino a Johannesburg comincerà con un torneo di street soccer, proprio da Mathare (il 29-30 maggio), la baraccopoli di lamiera che in un chilometro quadrato serve da dormitorio a 250 mila abitanti di Nairobi. «Le mappe della capitale kenyana la indicano ancora come parco pubblico – spiega Luca – ma in realtà Mathare è lo slum nato sui resti di una ex cava e si trova a soli 4 chilometri dal centro. Qui il 90% delle persone paga un affitto di 600 scellini (6 euro), ai proprietari fittizi delle baracche e quasi tutti sono allacciati illegalmente alla rete elettrica della città, tramite degli strozzini a cui si deve versare un pizzo di un euro al mese». Storie di un quotidiano duro, al limite della sussistenza, che conosce bene Dominic Otieno, il più anziano del gruppo, 36 anni, allenatore e direttore dell’associazione WhyNot, alla quale è intitolato lo stadio e l’omonima scuola-calcio della baraccopoli, in cui militano 350 ragazzi e ragazze (dai 6 ai 20 anni). «Ogni anno organizziamo campionati all’interno dello slum e vi partecipano oltre trenta squadre», dice orgoglioso Dominic.Quello di Mathare è uno dei tanti piccoli e remoti «campionati del mondo» che si disputano nei campetti spelacchiati di questo continente e dai quali spesso escono fuori calciatori come Hillary Masinde, l’altro allenatore a bordo del matatu che con lo Yassets, club di Koinonia Community, nel 2006 arrivò in Italia per partecipare alla competizione AltriMondiali. «Insieme ad una squadra palestinese dei campi profughi – racconta Hillary – abbiamo girato l’Italia per un mese ed è stata l’occasione per riflettere e confrontarci su temi come lo sfruttamento del lavoro minorile, il razzismo e attraverso il calcio condividere uno spirito di solidarietà. E poi da voi sono diventato un tecnico, due anni fa a Pisa ho frequentato un corso per allenare ragazzi dagli 8 ai 15 anni». La stessa età di tanti africani che il matatu incontrerà nel suo cammino. Un tracciato spesso impervio e dalle condizioni ambientali non sempre sicure che si snoderà per 12 mila chilometri: da dieci giorni prima della partita inaugurale dei mondiali sudafricani (l’11 giugno) fino alla fatidica notte dell’11 luglio, quella della finalissima al monumentale Soccer City Stadium (impianto da 95mila posti) di Johannesburg, davanti al quale il matatu parcheggerà puntuale prima del fischio d’inizio. «Sessanta giorni tra andata e ritorno, in cui dove potremo ci appoggeremo a una dozzina di Ong lombarde di CoLomba che operano con progetti in corso negli otto Paesi – continua Luca –. Dal Kenya passeremo in Tanzania, via Malawi accederemo in Zambia e poi dallo Zimbabwe al Mozambico. Infine dal piccolo staterello dello Swaziland entreremo in Sudafrica». Un itinerario insidioso, sfidando con il pacifismo del pallone «i conflitti che hanno lasciato profonde ferite non ancora rimarginate nello Zimbabwe», solcando le «strade accidentate del Mozambico», stando molto attenti alle aggressioni della bande di rapinatori e senza coprirsi gli occhi al passaggio, dinanzi ai lazzaretti della peste del Terzo Millennio, spesso dimenticata dall’Occidente: «L’Aids, che nel piccolissimo Swaziland ha il tasso di mortalità più alto al mondo». Luca e gli altri ragazzi del matatu da anni vedono e toccano con mano la malattia, la fame, la sete e la morte di tanti bambini che si spengono come candele nella lunga notte buia africana. Ma per fortuna c’è anche la gioia sudata e il sorriso di chi sogna dietro alla luna che è grande e da tenere stretta tra i piedi nudi, come un pallone. Corpi esili che si inseguono in una corsa di gazzelle, ossicini avvolti in quelle maglie colorate e calzoncini sempre un po’ troppo larghi, che le società italiane «specie quelle piccole e più generose come il Novara», spediscono fin qui. Doni graditi per chi è cresciuto con il mito lontano di Rino Gattuso, «perché lui è uno di loro, dicono che gioca come un africano, ed è un complimento» e che hanno fatto entrare nello slang della lingua swahili il termine «Materazzi», tradotto: «Ti do una testata».Ma nelle partite undici contro undici di AltriMondiali vincerà come sempre il fair play e le immagini delle sfide e del reportage del viaggio verranno riversate in pellicola dai due cineoperatori del matatu. Alle riprese penseranno Maxwell Odhiambo, animatore nelle baraccopoli di Nairobi e Paul Ndungi, 22 anni appena e già editor dei documentari della casa di produzione indipendente The Invisible Cities. «Uno dei miei obiettivi – dice Paul – è viaggiare per il mondo girando video e l’opportunità di andare fino in Sudafrica rappresenta un sogno che si avvera. Sono un grande tifoso del calcio africano e spero di poter condividere questa passione con le altre comunità che incontreremo strada facendo». I contributi video del viaggio saranno utilizzati per fare un film-documentario realizzato da ragazzi africani e italiani col coordinamento di Piero Pezzoni, di Africa Peace Point. Immagini che serviranno a rendere visibili quelli che in coro definiscono «i tanti lati positivi e meno noti dell’Africa». Telecamere accese dunque, in quelle zone ancora completamente all’oscuro della grande kermesse calcistica sudafricana. «Il rischio – conclude Michele Papagna, fondatore dell’Altropallone – è quello che una volta spenti i riflettori degli stadi sudafricani, tutto torni inesorabilmente come prima, ma la speranza che qualcosa cambi e che il futuro di questo continente possa essere migliore lo avverti anche nei più giovani di un’Africa che oggi più che mai è in fermento». È l’effetto dello «Yes we can» di Barack Obama che infiamma e alimenta la speranze di tutti i neri africani che, dalla baraccopoli di Mathare, fino allo slum di Soweto, oggi pensano «anch’io posso farcela». Un pallone e una partita non possono cambiare il destino di un popolo e tanto meno del mondo, ma forse è arrivato il momento di ascoltare la voce di Mandela e di interrogarsi con le sue parole: «Se io non so cambiare quando le circostanze lo impongono, come posso chiedere agli altri di cambiare?». Buon viaggio matatu.
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