lunedì 29 luglio 2013
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​Gli anni Sessanta della canzone italiana, in fondo, iniziano nel ’58 e finiscono nel ’68. Prendono il via quando al Casino di Sanremo Domenico Modugno apre le braccia per cantare Nel blu dipinto di blu e assesta un ceffone da knock out alla tradizione retorico-melodica, e si chiudono col trionfo sanremese del ’68 di un cantautore doc, Sergio Endrigo, con Canzone per te. In mezzo c’è il passaggio dal Dopoguerra della canzonetta al suo boom, un passaggio che Giulio Rapetti in arte Mogol ha vissuto da protagonista. Non solo per aver assistito allo scambio del testimone – nelle vendite e nei gusti del pubblico – fra Claudio Villa, Luciano Tajoli e Nilla Pizzi da una parte e Mina, Morandi e Celentano dall’altra (con le nostre hit invase anche da Beatles, Sinatra, Tom Jones, Brel, Dylan). Ma anche perché Mogol, quel passaggio, ha contribuito a crearlo: prima scrivendo Al di là con cui nel ’61 la tradizione salì per una delle ultime volte sul podio sanremese; poi iniettando parole nuove nella nuova musica di Equipe 84, Caterina Caselli, Patty Pravo e (ovviamente) Lucio Battisti.
Mogol, come definisce gli anni 60 della musica da noi?Li definirei il decennio di una qualità nuova, che col tempo ha generato il pop più bello di sempre: in Italia e all’estero. Fu allora che il pop divenne cultura di un Paese e di più generazioni. Oggi avverto diffusa nostalgia, per gli artisti di quel periodo e per canzoni che arrivavano al cuore dei giovani. Ma si spingeva la qualità. Oggi la musica si basa su altro, e le canzoni sono più leggere: non in senso nobile.
C’è per lei un grande sottovalutato di quegli anni?Gianni Bella, che allora iniziava a scrivere ed è un genio, un autore di cose fantastiche. Ma purtroppo perse molto appeal a causa del suo accento, sin da bambino parlava in siciliano stretto. Eppure quando cantava in inglese all’estero, emozionava tutti.
Negli anni 60 si creò il mito degli scontri tra generazioni, su tutti Claudio Villa/Gianni Morandi. Ma c’era veramente, una sacca di resistenza del pubblico a nuove voci e nuovi suoni?
Come oggi. Villa era di estrazione tenorile e pure ora chi fa un do di petto verrà applaudito anche da chi non ne capisce nulla: mentre il nuovo è meno immediato, per la massa. No, i tempi erano maturi per cambiare.
Però un giovane di oggi sbigottirebbe sapendo che fra i “rivoluzionari” c’era, per dire, Peppino Di Capri…Ma sa, non credo. Chi vuole veramente conoscere la musica non può scappare da certe cose. Taluni fenomeni sono divenuti punti di riferimento, faccende da studiare. E poi il bello rimane sempre tale.
Però forse allora c’era più cultura, se nelle hit si affacciarono persino la “mala” della Vanoni, il teatro di Milva, Nanni Svampa che cantava Brassens e il Coro della Sat… Non solo Mario Tessuto e le canzoni estive.Perché allora c’era più qualità, appunto. E il bello vince sempre. Io credo non ci siano generi, solo qualità o mancanza di qualità: la musica esprime l’anima, il genere che si sceglie non muta la capacità di farlo o meno. E se ci si riesce, qualunque musica diviene per forza patrimonio popolare: cioè di molti.
È cambiato tanto il ruolo dell’autore in cinquant’anni?Be’, prima eravamo più importanti. Ma se non si centra più la ricerca musicale sulla qualità, allora i testi possono anche essere scritti da dilettanti: tanto…
Ricapitoliamo: gli anni 60 cosa diedero alla nostra canzone? Ovvero, da tutta quella qualità cosa uscì?Direi la modernità. Modugno fu il primo, ma non dimentichiamoci di Carosone, poi ecco i cantautori, Paoli, De André… E Battisti. Con tanto di successi mondiali per Modugno e Lucio, di cui so che va pazzo McCartney. Si passò da Napoli e melodramma a un gusto anglofono che però non venne innestato copiando, bensì in modo originale. Wilson Pickett venne a Sanremo per cantare <+corsivo>Un’avventura<+tondo> perché la riteneva una canzone adatta al suo repertorio; <+corsivo>Il tempo di morire<+tondo> è rock, non rock “all’italiana”: e gente come Little Tony ha messo le basi perché dopo di loro ci fossero autori che concretizzassero la voglia di guardare a Elvis e agli Stati Uniti dentro una professionalità musicale originale.
Mogol che cosa ritiene di aver dato, in questo percorso?Mah, dirlo credo sia compito di voi critici. Io sono arrossito quando insignendomi della laurea honoris causa a Palermo hanno detto che ho costruito il lessico sentimentale degli italiani e che i poeti sono necessari perché dicono quello che non si sa dire.
Cosa che lei ha fatto sempre allo stesso modo, cioè lavorava con Battisti come con Mango o con Tozzi?Sì. Ascolto la musica e scrivo. Senza dire tutto perché la gente deve sentire libera la sua emozione.
Ma alla fine, c’è qualcosa degli anni Sessanta che va tenuto a tutti costi e altro che invece va ​​buttato?Ci penserà la gente a dirlo. Come è successo a Mozart e non ad altri, rimarrà chi merita di rimanere.​
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