venerdì 23 febbraio 2018
La capitale della Somalia esce da venticinque anni di guerra. Ma la ricostruzione rischia di essere un boomerang per i beni architettonici già molto provati. L'appello all'Italia
Il faro del vecchio porto (Amison photo/Ilyas Ahmed)

Il faro del vecchio porto (Amison photo/Ilyas Ahmed)

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«E giungemmo a Mogadiscio, città vastissima. I suoi abitanti, che sono dei ricchi mercanti, posseggono una quantità di cammelli, che sgozzano ogni giorno a centinaia, e gran quantità di ovini. Si fabbricano a Mogadiscio le stoffe senza uguali che vanno sotto il suo nome, e si esportano di lì in Egitto e altrove». Era il 1331, e questa era la prima impressione che Ibn Battuta, il Marco Polo arabo, ebbe della città abitata dai Banaadiri, il “popolo multietnico” (originario in buona parte dello Yemen e con apporti arabi, etiopi e altri), snodo commerciale e culturale tra Africa, Medio Oriente e India e Cina.

Città di moschee

Al viaggiatore che veniva dal mare, Mogadiscio appariva come una città vivace e ben curata, dominata da una trentina di moschee – con pavimenti, portali e mihrab (le nicchie orientate verso la Mecca) finemente decorati. Non solo i singoli edifici religiosi o le case signorili, ma tutto il tessuto urbanistico – come le vie strette, disegnate per creare ambienti ombreggiati – e soluzioni come quelle adottate per la climatizzazione degli edifici coniugavano il fascino estetico alla migliore tecnologia all’epoca possibile. I boordi, per esempio, cioè i tronchi di mangrovia, dalla forma spesso irregolare, abilmente riutilizzati divenivano architravi e pilastri capaci di tenere in piedi case a più piani.

Ma che ne è, oggi, del prezioso patrimonio architettonico di una città preda della distruzione dal 1991, anno della caduta del dittatore Siad Barre? Le immagini dei reportage di cui abbiamo memoria parlano di macerie, più che di bellezza. Ha senso occuparsi di ruderi, di restauri e conservazione quando sembra che tutto possa di nuovo finire a pezzi? Eppure...

Negli ultimi anni si sono accese speranze, anche se ciclicamente compromesse da episodi orrendi (la strage di metà ottobre, 512 morti, è la più grave mai perpetrata dai jihadisti), e tanti somali sono tornati dall’estero per rimboccarsi le maniche. Tra di loro, Nuredin Hagi Scikei – 60 anni, una laurea in ingegneria idraulica all’Università di Bologna e molti anni in Italia –, che non si dà pace per i rischi di ulteriore devastazione del patrimonio culturale della sua città. «Bisogna intervenire per salvare ciò che rimane del centro storico, con le sue opere medievali e quelle del periodo italiano – avverte –. Durante gli anni della barbarie sono avvenute distruzioni immani, come nel caso della moschea di Arba’a Rukun, risalente al 1269, e di opere d’epoca coloniale come il vecchio Parlamento, le scuole italiane e tante altre».

La Turchia – che in Somalia è sempre più attiva, per esempio nel rifacimento del porto della capitale – assicura alcuni lavori di recupero, come della suddetta moschea e della torre Abdulaziz, un emblema della città, ma Nuredin lamenta che «i restauri sono avvenuti senza l’intervento di archeologi capaci e, peggio ancora, i subappalti sono stati concessi a costruttori locali senza esperienza in fatto di edifici antichi».

Distruzione e speculazione

Alle ingiurie del tempo, all’incuria e poi alle devastazioni della guerra, si aggiungono pertanto gli interventi incompetenti, quando non sono veri stravolgimenti. All’albergo Croce del Sud poteva andare anche peggio. Disegnato da Carlo Enrico Rava, che ne fece un modello di architettura littoria a latitudine equatoriale – peraltro ispirandosi ai saraha, i tradizionali palazzi del Benadir, cioè della regione di Mogadiscio – oggi è diventato il Mogadishu Mall, uno sfavillante centro commerciale. L’ingegnere indiano incaricato del progetto ha per lo meno avuto «l’intelligenza – commenta Nuredin – di integrare la struttura dell’edificio storico».

Casi rari. La pace, attraendo investimenti e voglia di ricostruzione, può far danni quanto la guerra, dal punto di vista della memoria urbanistica, storica e culturale. E il processo avanza a passo di corsa. «Gli speculatori – Hagi Scikei lo osserva con i suoi occhi – cercano di accaparrarsi nuovi lotti spazzando via le costruzioni storiche».

Che fare? L’ingegnere – che al tema ha dedicato un libro fresco di stampa (Exploring the Old Stone Town of Mogadishu, Cambridge Scholars Publishing) – invoca l’intervento dell’Italia perché si crei qualcosa di «simile all’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, che è un unico organismo in cui un team di esperti (storici, architetti, archeologi e altri tecnici qualificati) svolgono insieme le ricerche, la formazione degli operatori e un’attività sistematica di restauro». Nuredin ritiene indispensabile un sostegno della durata di almeno dieci anni all’istituto che sogna per la sua città. «Qui le maestranze qualificate sono poche. Negli ultimi vent’anni molte competenze sono andate perse».

Gesto riparatore

Ma perché rivolgersi all’ex potenza coloniale? «Il patrimonio di Mogadiscio e di altre città costiere non comprende solo le costruzioni medievali ma anche quelle del periodo coloniale – argomenta l’ingegnere – . L’Italia ha insomma motivazioni che nessun altro Paese può avere. Inoltre vanta numerose eccellenze nel campo del restauro. Ma Roma dovrebbe prendere l’iniziativa e proporsi al governo di Mogadiscio, senza aspettare una richiesta formale dalla Somalia».

Aggiungiamo che un intervento italiano sarebbe anche un atto riparatore. Se il colonialismo ha lasciato architetture che andrebbero preservate, le aveva però create operando, a sua volta, devastazioni. La demolizione di Shingaani, uno dei due nuclei storici della città (l’altro è Hamar Weyne), cominciò ben prima del 1991… «Nel 1930 – scrive l’ingegnere Nuredin nel suo libro – le autorità coloniali italiane abbatterono un’ampia area del distretto di Shingaani per aprirvi una strada. E la strada passò sopra un cimitero dei Banaadiri, il secondo per importanza».

Una profanazione, ma anche una perdita irrimediabile di testimonianze lapidee con iscrizioni di rilevanza storiografica. Lo stesso dicasi per Villa Somalia, per il Teatro Nazionale… Mettere le competenze italiane a servizio di un progetto di questo calibro, in un quadro di cooperazione culturale, sarebbe, oggi, solo la cosa giusta da farsi.

Questo articolo sulla situazione di Mogadiscio a firma di Pier Maria Mazzola è un’anticipazione tratta dall’ultimo numero, attualmente in distribuzione, del bimestrale dei Padri Bianchi “Africa”. La copertina è dedicata al reportage di Giovanni Porzio sulla guerra dell’avorio e l’infinita strage di elefanti in Tanzania.


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