martedì 7 novembre 2017
Torna a 76 anni il grande disegnatore e premio Oscar giapponese e un documentario ne racconta la vita. «Sono preoccupato per le nuove generazioni e per il disagio sociale nato dal fenomeno manga»
Miyazaki, l'ultimo samurai del cinema d'animazione
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«La nostra epoca sta finendo, forse è meglio così». Il regista e disegnatore Hayao Miyazaki sospira osservando gli scatoloni ammassati sui tavoli vuoti dello Studio Ghibli, da lui fondato a Tokyo nel 1985 insieme al collega Isao Takahata, dopo l’annuncio del suo ritiro. Su quelle scrivanie sono stati disegnati a mano alcuni fra i film d’animazione più belli degli ultimi 30 anni, capolavori di poesia e fantasia universali come Nausicaa nella valle del vento, Il mio vicino Totoro, Principessa Mononokee Il castello errante di Howl. Ma anche La città incantata che gli valse l’Orso d’oro a Berlino nel 2002 e l’Oscar nel 2003.

Viaggiando nel paese del Sol Levante oggi si tocca con mano come il boom dell’animazione giapponese, che 40 anni fa ha rivoluzionato anche il nostro immaginario, sia arrivato a un punto di svolta. In cui la profonda eredità di una cultura millenaria deve fare i conti con una tecnologia fenomenale, ma anche sempre più spersonalizzante. Ed è anche per questo che il papà di Heidi, che oggi ha 76 anni, continua a dichiarare di sentirsi vecchio e stanco, nello splendido documentario Never ending man: Hayao Miyazaki, al cinema solo il 14 novembre distribuito da Nexo Digital. Il maestro aveva dato l’addio ai lungometraggi nel 2013 in coincidenza della sua partecipazione al Festival di Venezia con Si alza il vento. Ma nel 2015 ci ha ripensato e si è rimesso al lavoro sul cortometraggio Boro, il bruco, una nuova sfida con se stesso.

Il regista della TV giapponese Nhk Kaku Arakawa svela i pensieri e i timori di un inedito Miyazaki seguendo con discrezione le sue giornate. Il pensiero della morte è ricorrente. «Sono andato a molti funerali di recente, non lo sopporto» dice il maestro mentre serve il tè, un grembiulone bianco da lavoro, che gli dà l’aria del vecchio artigiano, carta e matite colorate sparse sulla scrivania. «Non ho più voglia di adeguarmi alla società di adesso» aggiunge il maestro rivendicando il valore del lavoro e del sacrificio, anche se dentro di lui arde la voglia di «creare qualcosa di straordinario, ma no so se sono in grado».

Insofferente, lui di spirito socialista, verso le derive del consumismo che ha portato al fenomeno degli otaku, i fanatici di manga e anime che collezionano gadget e che si travestono come i loro personaggi preferiti, vivendo una sorta di vita parallela. Incapaci di comunicare, come gli hikikomori, (se ne contano 700 mila in Giappone) persone che si ritirano all’interno delle proprie stanze fra cartoon e videogiochi e decidono di recidere qualsiasi legame con il mondo esterno. Giovani soli e disorientati in una società indebolita dalla perdita di principi e preoccupata da un’economia non più fiorente. Gli otakuaffollano a centinaia le vie di Akhiabara, detta Akiba, il quartiere di Tokyo un tempo patria dell’elettronica, oggi dedicato all’ani- mazione e ai videogiochi.

Un frastornante paese dei balocchi dominato da sale giochi gigantesche e enormi magazzini come il Mandarake Complex, 8 piani di fumetti, dvd, gadget, dalle più moderne statuine ai costosissimi robot e Godzilla anni ’50. E in cui impazzano i “maid café”, dove sentirsi felici come in un cartoon costa sei dollari, caffé e foto con servizievole camerierina in abiti vittoriani compresi. Al tempo stesso, però, questi figli del consumismo sono capaci di influenzare le scelte delle decine di case di produzione con base a Tokyo attraverso un sistema che si basa sui fanservice, per giudicare i manga, gli anime, i videogiochi.

Hayao Miyazaki li definisce «la rovina dell’industria». Vanno infatti controcorrente le atmosfere eleganti ed europee del Museo Ghibli di Mitaka, sobborgo a ovest di Tokyo, dedicato ai personaggi e alle opere di Miyazaki. Impossibile trovare i biglietti anche con largo anticipo. Il percorso inizia ricostruendo la storia dell’animazione con alcune deliziose “scatole magiche” che lasciano a bocca aperta grandi e piccini, per passare alla ricostruzione fedele dello studio del maestro, una scrivania di legno in stile retro, e decine e decine di splendidi disegni autografi appesi alle pareti. L’Oscar è esposto in una bacheca insieme ai suoi personaggi.

È di quest’estate l’annuncio che nascerà un nuovo parco a tema, protagonista Totoro. Il Ghibli Park sorgerà nella città di Nagoya secondo criteri ecosostenibili e aprirà i battenti nell’estate del 2020 in vista delle Olimpiadi. Intanto per il 2019 c’è da finire il corto sul bruco destinato al museo. Il maestro mostra nel documentario tutta la sua diffidenza verso la computer grafica: «L’importante è disegnare persone, non personaggi».

L’incontro con un gruppo di giovani che gli mostre le potenzialità della tecnica tridimensionale inizialmente lo entusiasma, poi lo disorienta perché incapace di trasmettere la sua poesia e l’anima ai personaggi attraverso una tecnologia che non conosce. E i giovani non lo seguono. «Qual è il vostro obiettivo?» chiede infine Miyazaki. «Creare dei computer che disegnino da soli. Grazie al “deep learning” fra 5 o 10 anni sarà possibile». «Così le persone non serviranno più?» replica severo. «Sento che la fine del mondo è vicina. Gli uomini stanno perdendo fiducia in se stessi» borbotta. Al diavolo le tecnologie, l’ultimo samurai si arma di carta e matita e riprende la strada del lungometraggio tradizionale. «L’ho fatto per il mio nipotino. Ci vorranno tre o quattro anni per completarlo».

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