venerdì 30 giugno 2023
Il 23 marzo scorso ci lasciava un rivoluzionario dell'informazione e della conduzione televisiva. Nei suoi programmi cult riusciva a far dialogare campioni dello sport, premi Oscar e Nobel
Il giornalista Gianni Minà con il suo grande amico Diego Armando Maradona

Il giornalista Gianni Minà con il suo grande amico Diego Armando Maradona

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Il 23 aprile scorso, a 84 anni, se ne andava per sempre Gianni Minà, un pilastro del giornalismo cresciuto alla grande scuola dei maestri Ghirelli, Zavoli e Barendson. Un docufilm, “Una vita da giornalista” e un libro fotografico, “Fame di storie”, ripercorrono sessant’anni di carriera di un fuoriclasse che, come pochi, ha sperimentato nel suo mestiere l’arte dell’incontro Il giorno che Gianni Minà ha lasciato questa terra, il 23 marzo scorso, a 84 anni, terra che aveva scandagliato a fondo, volando e consumando scarpe (come si faceva una volta, prima di questo tempo digitale) anche negli angoli più remoti del pianeta, stavo attaccato alla mano di mio padre morente e così non ho avuto neanche il tempo e forza di piangerlo. Lo faccio adesso, ma lo vorrei fare con il sorriso sotto i baffi - come faceva Gianni - sfogliando l’album della sua vita professionale che è quasi sempre coincisa con quella personale dell’uomo Minà. L’opportunità di ripercorrere il cammino giornalistico ed esistenziale di questo raro “bracconiere di storie”, ce la offre l’uscita di un fantastico libro fotografico. Si intitola appunto Fame di storie (edito da una giovane e raffinatissima casa editrice napoletana, la Roberto Nicolucci. Pagine 285. Euro 26,00) il volume che ci regala la Fondazione Gianni Minà. Una preziosa raccolta di immagini che va in parallelo al docufilm che per tre giorni, fino a ieri, è stato proiettato nelle sale, Gianni Minà – Una vita da giornalista, ideato e diretto dalla moglie, Loredana Macchietti. Libro e documentario sono un unico atto d’amore verso un professionista capace di incidere la propria cifra nel suo mestiere. Un artigiano, poetico, avventuroso, che ha onorato il giornalismo più nobile e variegato, in 60 anni di carriera. Una vocazione, quella del narratore prestato all’informazione, nata fin da bambino, cresciuto all’ombra della Mole e dello stadio Filadelfia, la tana inespugnabile del Grande Torino (aveva 11 anni il 4 maggio 1949, il giorno della sciagura aerea di Superga). Talento educato in una famiglia borghese di origine siciliana (madre orfana di padre morto nel terremoto di Messina, del 1908), papà Paolo avvocato della Reale Mutua e della Federcalcio, ex gerarca fascista che si era riscattato salvando un partigiano dai rastrellamenti. Bastano questi pochi indizi da interno di famiglia Minà per comprendere l’humus fertilissimo del giovane Gianni, forte di studi classici sui banchi del prestigioso Liceo D’Azeglio e poi delle lezioni, anche di vita, dei suoi «quattro “maestri”» che gli hanno indicato la via. Il primo mentore, era un uomo della strada, conosciuto alle case popolari di via Monte Grappa: il sardo Giovanni Pische, carismatico, un reduce di guerra finito in carrozzina, ex atleta e precursore di quello sport Paralimpico che fiorì alle Olimpiadi «più umane» di Roma 1960. « I mitici anni ‘60», zeppolava divertente il reporter Minà, allievo della grande scuola dei tre maestri di giornalismo: Antonio Ghirelli, Sergio Zavoli e Maurizio Barendson. Tre menti rare, che gli hanno fatto comprendere che il giornalista «non è un giudice né un pubblico ministero. Io sono solo il ponte tra una situazione, una personalità e la gente, il mondo». E grazie alla loro sapienziale lezione, Minà aveva coronato il sogno fatto da bambino: « Ho sempre avuto chiaro cosa volessi fare nella vita: il giornalista, cioè il raccontatore di storie. Ho narrato di tutto, il terremoto del Friuli, la gente, la boxe, la musica, l’America Latina, gli scrittori, gli artisti, i jazzisti, insomma la vita». Quella vita che lo faceva passare da un campo all’altro della Storia. E la Storia, Minà l’ha saputa intercettare con i suoi eventi ed i suoi eroi, ma anche dribblare, in caso di pericolo o di minaccia di guerra, con la stesa rapidità e l’eleganza del suo idolo di gioventù, la Farfalla Granata Gigi Meroni. In Fame di storie, gli scatti e gli aneddoti sono ripartiti in cinque scaffali ideali: lo Sport, il Cinema, la Musica, gli Scrittori e la Politica. Nella galassia olimpica consumò il suo ’68. Alle Olimpiadi di Città del Messico dormiva nella palestra del «patriarca Salvador Lutteroth». Con i suoi occhi vide in diretta (come Oriana Fallaci che rimase ferita negli scontri di piazza) il “massacro di Tlatelolco”: studenti, uccisi dai militari e portati via nei camion della spazzatura, due settimane prima che sul podio olimpico si accendesse la brace della “rivolta delle blackpanthers”: il pugno levato al cielo dagli americani Tommie Smith e John Carlos con l’australiano solidale, e dissidente quanto loro, Peter Norman. «Quella foto fu la nostra trinità, scalza e laica. Quel giorno venne da piangere a tanti di noi. Non eravamo ancora abituati all’esibizionismo di adesso. In ogni gesto contava ancora soltanto il significato», ha raccontato Minà nell’altrettanto pregevole libro autobiogafico Storia di un boxeur latino (scritto con Fabio Stassi, edito da minimum fax). « Al mio boxeur latino», era la dedica con cui Paolo Conte omaggiava quell’ex ragazzo del Gianni, che amava i Beatles e i Rolling Stones. Ma lo scatto con Mick Jagger non è paragonabile a quello con i quattro ragazzi di Liverpool, che a bordo della Fiat 600 di suo fratello Enzo, Minà aveva allegramente scarrozzato da Roma a Milano fino a Genova, nelle tre tappe del memorabile, specie per lui, tour italiano del 1965. Ed io tra di voi di Aznavour potrebbe essere la colonna sonora di questo taccuino vivente che grazie all’apprendistato, alla trasmissione Rai Sprint, con Barendson («che applicava al racconto televisivo le tecniche della cinematografia che conosceva bene») comprende che il suo futuro sarebbe passato dalla tv per approdare al documentario. Con Blitz, nel 1981, Minà inventò il genere dell’intrattenimento domenicale, in cui sport e spettacolo per la prima volta si scambiavano la maglia. . Quella n.”10” di Maradona gli spetterebbe di diritto, per essere stato l’unico giornalista ad aver accarezzato l’anima dell’uomo Diego senza scivolare nella retorica del mito di Eupalla. Lo stesso aveva fatto, stabilendo un rapporto altrettanto fraterno, con Massimo Troisi. «Gianni Minà… voi già lo sapete che cosa voglio dire: io lo invidio. Lo invidio per la sua agendina telefonica…». Questo siparietto con Troisi nella sua trasmissione Alta classe, il programma del martedì sera di Rai1 (in onda nel 1992) è ormai storia della televisione. Una storia del piccolo schermo nazionalpopolare di cui Minà rimane un maestro insuperato, «anche se nessun manuale mi cita», lamentava amaro in una intervista a Elvira Serra sul Corriere della Sera. Ma resteranno per sempre alla storia i suoi doc come Papa Francesco , Cuba e Fidel, il film dedicato alla visita storica del Pontefice all’Avana, nel settembre del 2015, come le 16 ore di intervista con Fidel Castro (nel 1987): «Un record che va oltre i Caraibi», come ironizzava il Lider Maximo cubano. E il premio per questo, “Kamera alla carriera”, tributatogli vent’anni dopo alla Berlinale per Cuban Memories lo considerava giustamente il suo Oscar personale. Minà è stato l’amico dei premi Oscar, Sergio Leone e Robert De Niro, riuniti con il Nobel per la letteratura Gabriel Garcia Márquez al tavolo del ristorante romano Checco er Carrettiere. Ma tutti quella sera erano accorsi perché da Roma ospite della sua trasmissione passava “The Greatest”, Muhammad Ali. In quella fotografia, tra i giganti, scorre tutta la sua profonda leggerezza professionale. Una voce suadente ma a volte scomoda: in fuga dall’Argentina del dittatore Videla per aver osato indagare la tragedia dei desaparecidos un anno prima del Mundial della Coppa insanguinata del ’78, dove poi non fu inviato. Minà sapeva essere narratore visionario alla Osvaldo Soriano, saggista attento alla prospettiva Latino America (testata della sua storica rivista) con i suoi splendori e le relative miserie, descritte da Eduardo Galeano. Minà è stato poeta tra i poeti. Che «la vita amico è l’arte dell’incontro », l’ha sentito pronunciare dalla viva voce di Vinicius de Moraes con il quale ha brindato, cantato e tirato a notte fonda assieme alla banda della bossa nova, Toquinho, Gilberto Gil, Cateano Veloso e Chico Buarque. Mai desafinado («stonato») il nostro boxeur latino, che al gong finale ha preso il microfono e in mezzo al ring della vita confessava: « Ho raccontato molto ma ho anche lottato molto per sostenere il valore, ogni giorno più fragile, della libertà di espressione e del diritto di essere informati». Grazie Gianni, la tua lezione, come quella di un padre, continua.

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