lunedì 3 giugno 2013
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È probabile che sia in atto una specie di scontro tra l’azione vivificante e quella distruttiva dei batteri della civiltà, sin qui capaci di equilibrarsi a vicenda. Quale esito esso avrà in futuro è un’incognita. Non c’è computer capace di calcolare tanti pro e contro, così il poeta con la sua intuizione rimane l’unica, per quanto incerta, fonte di sapere. Metto ora da una parte economia e politica e ritorno entro i limiti che mi competono, cercando di indagare a fondo i motivi per cui, se pure non sono ottimista, quanto meno mi oppongo all’assenza di speranza.Possiamo rendere giustizia al nostro tempo solo se lo confrontiamo con quello dei nonni e bisnonni. È accaduto qualcosa di cui non e facile rendersi pienamente conto, tanto ci pare normale, ma che ha e avrà un’importanza enorme. Non sono i jet usati come mezzi di trasporto, non è la riduzione della mortalità infantile, né la pillola anticoncezionale a determinare la straordinarietà del Novecento. È piuttosto l’emergere dell’umanità come forza elementare compatta, là dove, finora, esisteva solo un’umanità divisa in caste distinte per abiti, mentalità e costumi. È una trasformazione osservabile per ora solo in alcuni Paesi, ma che si sta gradualmente compiendo ovunque, e che porta alla scomparsa di certe concezioni mitiche, molto diffuse nel secolo scorso, sui connotati che caratterizzerebbero in modo permanente categorie quali il contadino, l’operaio, l’intellettuale. [...]Azzardando una profezia, dirò che nel XXI secolo mi aspetto un rapido e radicale distacco dalla visione del mondo definita in primis dalla biologia, e ciò grazie a una riacquistata coscienza storica. Anziché presentare l’uomo attraverso ciò che lo accomuna alle altre forme superiori della catena evolutiva, come si usa fare oggi, verranno evidenziate la straordinarietà, la stravaganza e la solitudine di una creatura incomprensibile a se stessa e che non cessa mai di andare oltre le proprie possibilità. L’umanità si alimenterà sempre più di se stessa, contemplerà sempre più il passato, cercando in esso una chiave del proprio mistero e penetrando per empatia l’anima delle passate generazioni e persino delle civilta ormai scomparse.Un presagio di ciò si può trovare nella poesia del Novecento. Ai primi del secolo l’istruzione, in verità appannaggio di una ristretta élite, comprendeva ancora l’apprendimento di latino e greco, lascito dell’ideale umanistico: di qui una certa familiarità, almeno tra le élite, con i poeti dell’antichità, letti in originale. Quel periodo à ormai chiuso, il latino è sparito persino dalla liturgia cattolica, e chissà se sarà mai possibile risuscitarlo. Al tempo stesso, però, stando a quanto testimonia la poesia, il passato dell’area mediterranea – ebraico, greco, latino – è presente nella nostra coscienza in maniera forse persino più intensa, anche se diversa, rispetto ai nostri colti predecessori. Ne troviamo conferma in molti poeti. È più viva che mai e anche la presenza di figure mitiche o leggendarie attinte dalla letteratura europea: Amleto, Re Lear, Prospero, François Villon, Faust. [...]Rendere presente ciò che è passato. Ancora oggi siamo inclini a credere che il poeta riceva in sorte più di una vita proprio perché è capace di camminare per le vie di città esistite duemila anni prima. Ma ciò caratterizza anche la ricerca del passato che emerge con sempre maggiore evidenza dall’interesse per le riproduzioni di arte antica, dall’architettura, dalla moda, dalle visite in massa ai musei. L’uomo a una dimensione vuole acquistare spessore, assumendo maschere, abiti, modi di sentire e di pensare provenienti da altre epoche.In gioco sembrano entrare anche questioni più serie. «Da dove potrà venire a noi la rinascita, a noi che abbiamo svuotato e imbrattato tutto il globo terrestre?», s’interroga Simone Weil. E risponde: «Solamente dal passato, se l’amiamo». A prima vista è una risposta enigmatica e non è facile capirne il significato. L’aforisma acquista un senso solo alla luce di altri suoi pensieri, sul tempo e sulla bellezza. Altrove, per esempio, Simone Weil afferma: «Due cose irriducibili a ogni razionalismo: il tempo e la bellezza. È da qui che occorre partire». Oppure: «La distanza è l’anima del bello». Il passato per lei è «tempo che ha il colore dell’eternità». A suo avviso l’uomo fa fatica a penetrare la realtà perché in ciò gli sono d’impaccio il suo «ego» e l’immaginazione che all’ego è asservita. Solo la distanza temporale ci consente di vedere la realtà senza colorarla delle nostre passioni, di vederla del «colore dell’eternità». E, vista così, la realtà è bella. Per questo il passato ha tanta importanza. «Il sentimento della realtà e allora puro; ed è questa la gioia pura. E questo il bello. Proust». Non nascondo che, citando Simone Weil, ripenso a ciò che, personalmente, mi ha reso sensibile alla sua teoria della purificazione. Non l’opera di Marcel Proust, a lei tanto caro, ma il Pan Tadeusz di Mickiewicz, letto molto tempo prima, durante l’infanzia, e da allora mio compagno inseparabile; un poema in cui gli avvenimenti più comuni della vita quotidiana, proprio perché descritti come lontani nel tempo, si trasfigurano in una trama fiabesca, e il dolore è assente perché colpisce solo noi, i viventi, non i personaggi evocati da una memoria che tutto perdona.L’umanità si alimenterà di se stessa anche nel senso che cercherà una realtà purificata, cercherà il «colore dell’eternità», ossia semplicemente il bello. Forse era proprio questo che voleva dire Dostoevskij, scettico sulle sorti della civiltà, quando affermava che la bellezza salverà il mondo. La crescente disperazione per la discrepanza tra la realtà e le aspirazioni del nostro cuore sarà così scongiurata e il mondo che esiste oggettivamente – come forse appare agli occhi di Dio e non come è percepito da noi, con i nostri desideri e le nostre sofferenze – sarà accettato in tutto il suo bene e in tutto il suo male. [...]Non è questo il luogo per predire che cosa accadrà domani, come fanno gli indovini e i futurologi. La speranza del poeta, quella che io difendo, che promuovo, non è circoscritta da alcuna data. Poiché la disintegrazione è  in funzione dello sviluppo e lo sviluppo in funzione della disintegrazione, lo scontro potrebbe benissimo concludersi con una vittoria della disintegrazione. Anche duratura, forse, ma non definitiva. Qui entra in gioco, appunto, la speranza, che però non è chimerica né folle. Al contrario, ogni giorno si possono vedere segnali che testimoniano come ora, in questo preciso istante, stia nascendo qualcosa di nuovo, e su una scala mai conosciuta prima: un’umanità che si configura come una forza elementare conscia di trascendere la Natura – perché solo l’uomo ha ricevuto in eredità quel tesoro che è la memoria, ovvero la Storia.
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