Un sentimento triste e infelice, come l’invidia, è tutt’altro che un sentimento debole. Possiede in verità una forza tutta speciale, sebbene solo di segno negativo: al punto di massima espansione, non conosce ragioni o motivazioni, diventa furia cieca, perseguimento sistematico, violenza distruttiva e infine omicida. Il bene dell’altro è così insopportabile che l’unica strada d’uscita, per l’invidioso, appare essere quella della distruzione dell’altro. La sua vista provoca un dolore solitario e intransitivo, singolare e incapace di dare ragione di sé che porta appunto la ragione a uscire fuori di sé. Da qui scatta il desiderio di far provare all’altro l’abisso di infelicità del nostro non essere come lui, che noi vediamo felice e prospero, la volontà di ferirlo con quel dolore che come nessun altro ora ferisce proprio noi. A causa sua, ovviamente. D’altro canto è davvero difficile contestare l’idea che soprattutto nei Paesi occidentali la qualità media della vita sia piuttosto «media», raramente buona, più di frequente scarsa. Mancano sussulti, nulla più ci eccita. Non solo perciò viviamo nell’epoca delle passioni tristi: siamo passioni tristi.Tristemente insomma l’uomo abita il tempo postmoderno. Ci siamo abituati a una vita senza felicità, senza contentezza. Siamo senza musica. Demotivati. E la culla di tutto questo è proprio la presenza incontestata, non governata, del sentimento di invidia nei nostri cuori. Una presenza che – va bene dirlo subito – è pure funzionale a un certo tipo di società. La nostra, per la precisione. In questa nostra società, infatti, da troppo tempo la politica si svolge al traino dell’economia. L’autentico padrone delle nostre vite è così diventato il mercato con la sua potente legge della crescita infinita e della performatività. A questo nuovo soggetto, vero <+corsivo>dominus <+tondo>della nostra società, ci piaccia o meno, servono semplicemente dei consumatori, persone cioè profondamente recettive delle «grandi cose» di cui sono capaci i prodotti da loro acquistabili. Servono perciò persone potenzialmente mai soddisfatte: un cliente soddisfatto è un cliente che esce dalla rete di pesca del mercato, almeno per qualche tempo, quello necessario per il consumo totale dell’oggetto acquistato. Per questo va alimentata unicamente una sorta di soddisfazione «precaria», che illuda di ottenere ciò che più d’ogni altra cosa si desidera e che però in verità non si ottiene. In modo da essere di nuovo disponibile ad altri acquisti, a ulteriori consumi. Insomma, l’infelicità serve al mercato e il mercato si serve dell’infelicità. Come? Alimentando una cultura dell’invidia. A rendere la situazione ulteriormente instabile è poi la precarietà che contraddistingue il soggetto contemporaneo. Privato delle sicurezze del sapere tradizionale, metodicamente dubbioso delle regole dell’etica e delle leggi della città, sconvolto dall’allungamento e dalla rimodulazione delle età della vita, circuito dalla potenza senza etica dell’apparato tecnico, egli è costantemente rinviato a se stesso, per giudicare del senso dell’umano. Non ha giudici né tribunali supremi cui appellarsi, per una sentenza di condanna o una di clemenza circa il suo operato. Tutto questo, però, altro non significherà che il soggetto postmoderno è sempre e daccapo rinviato agli altri: a ciò che dicono, scrivono e «cinguettano» (su Facebook e Twitter), a come si vestono e vivono: a come cioè abitano il mondo e progettano l’esistenza. È rinviato al tragico incidente del confronto, del paragone. È rinviato alle braccia invisibilmente avvolgenti dell’invidia.
Più subdolamente, però, la società odierna alimenta un’ulteriore, più sofisticata forma dell’invidia: quella dell’essere invidiati. Pare infatti che l’unica e ultima felicità rimastaci consista in questo nuovo sentimento di sicurezza, dato dal fatto di avvertire su di sé gli occhi degli altri. Occhi invidiosi si intende bene. Sarai veramente felice nella misura in cui sarai invidiabile e concretamente invidiato. Non a caso la pubblicità – il volto falsamente pulito del mercato – utilizza testimonial di ogni tipo per offrire alla clientela le ragioni di credibilità di un certo prodotto. Ove il non detto del messaggio pubblicitario è la promessa di poter diventare, grazie a quell’acquisto, simile al testimonial convocato all’uopo e profumatamente pagato (e come non invidiarlo almeno per quest’ultimo aspetto?). La promessa è quella di diventare uno che è come nessun altro. Una star, appunto. Una stella sulla terra! Smetti dunque di non sentirti nessuno. Di sentirti infelice come nessun altro. Acquista il prodotto e sarai come quel testimonial della pubblicità, che è da te e da tutti invidiato. Anche tu sarai invidiato. Questo è il segreto della (illusoria) felicità promessa a basso prezzo dal discorso capitalistico. Il quale, tra l’altro, mente sapendo di mentire: sa infatti bene che nessun oggetto potrà mai soddisfare il desiderio di felicità che abita nel cuore dell’uomo e che non è mai semplicemente desiderio di godimento. Più radicalmente è desiderio di riconoscimento. Quell’altrui riconoscimento falsamente ricercato, appunto, attraverso l’acquisto di questo e di quell’oggetto, secondo la promessa della pubblicità (gli occhi di tutti su di te). Il fallimento è dunque assicurato in linea di principio e di fatto, ma il discorso capitalistico, spostando di continuo la sua attenzione su nuove versioni del prodotto già acquistato, su imperdibili accessori di quello stesso prodotto e infine su nuovi miracolosi prodotti, più efficienti del primo a procurare la promessa felicità dell’essere come nessun altro, alla fine scarica la responsabilità del fallimento proprio sul compratore, colpevole di essere rimasto indietro, di non seguire la moda, di non volersi abbastanza bene da osare salire su quello che davvero è ora il «treno della felicità». Per quanto bieco possa apparirci tale dispositivo, nessuno può con facilità contestarne la forza. Siamo dunque costretti a una vita segnata dall’invidia infelice? Non ci è data alcuna strada d’uscita? Molti studiosi di questo potente sentimento umano sono del parere che non sia affatto semplice uscire dalle sue spire e dal suo potere di persuasione. Già a livello di vita vissuta, è difficilissimo riuscire a comprendere un invidioso, a entrare in una qualche empatia con lui. Possiamo capire una persona gelosa, una avida, una golosa, una irascibile. Una invidiosa, proprio no! C’è in quel suo ostinato sguardo su quell’unico punto dell’immenso reale della vita, dal quale a suo avviso discende una ferita insopportabile e inguaribile, un che di intransitivo, non mediabile, non afferrabile da altri. Quanto spesso sono vani i tentativi di coloro che provano a convincere l’invidioso dell’inutilità del suo sentimento disperato di dolore per il bene altrui e di ogni parola diffamatoria o gesto inconsulto che egli vorrà mettere all’opera per distruggere quest’ultimo, almeno ai fini del raggiungimento della propria personale felicità. Non bastano le parole, non bastano i ragionamenti. Lo stesso padre della psicanalisi, Sigmund Freud disperava della possibile guarigione da tale situazione. L’invidia si nutre di un meccanismo elementare della specie umana, quello dell’imparare a vivere attraverso lo sguardo. Uno sguardo che è segnato da un’istintiva concessione di privilegio morale e ontologico all’altro, da cui imparo le mosse azzeccate, per un cammino umano in mezzo al mondo. L’altro è prima di noi. Ed è dunque sempre meglio di noi. Noi siamo sempre dopo e quindi sempre meno di lui. Forse è proprio qui che si tratta di lavorare, per sperare di guarire dall’infestazione dell’invidia infelice: si tratta di mettersi alla scuola di un nuovo sguardo nei confronti dell’altro, di ogni altro, e soprattutto nei confronti di se stessi.
A chi scrive pare che la vicenda di Gesù – i suoi gesti e le sue parole – possa pure, in misura ampia, essere riletta e riproposta oggi come invito a un fecondo apprendistato di un vedere e di un vivere nuovi, riconciliati e riconcilianti, benedetti e benedicenti. La narrazione evangelica ci riporta con grande abbondanza di particolari il modo singolare con cui egli ha saputo guardare gli uomini e le donne del suo tempo, la loro sorte e condizione, e come essi siano stati efficacemente illuminati proprio da quello sguardo. Dal suo sguardo generosamente ospitale, accogliente, invitante, incoraggiante, in grado di cogliere l’altro da sé nella sua singolarità e originalità, emerge una forza risanante che sa restituire ciascuno alla sua verità e soprattutto alla bontà fondamentale che segna, sostiene e custodisce ogni esistenza. È uno sguardo che sa resuscitare la vita nella vita. Il mondo è il luogo dove scoprire le tracce della cura divina nei confronti della creatura umana, e che da ultimo la rinviano a un felice «alzare gli occhi al cielo». È proprio in questa espressione che trova la sua più efficace scrittura il mistero che governa lo sguardo di Gesù. Il «cielo» non è affatto vuoto. È l’istanza promettente e affidabile della presenza divina, l’istanza dell’abbà/padre, da cui ogni cosa del mondo è venuta alla luce, che Gesù ha a cuore di rivelare compiutamente agli uomini e alle donne del suo tempo e di ogni tempo. È esattamente con lo sguardo alzato e fissato sulla dedizione incondizionata di Dio, sul singolare amore che ne connota la verità profonda, che ciascun uomo e donna della terra può finalmente recuperare le forze per interrompere la presa del meccanismo mimetico e del suo potenziale distruttivo d’invidia. Riconoscendo infatti con riconoscenza l’amore di Dio che ha eletto ciascuno all’esistenza, siamo restituiti alla nostra verità, alla nostra singolarità, alla nostra finitezza, con il dono di una benedizione che offre finalmente la grazia di un «sì» alla vita, con il quale fare finalmente a meno dei meccanismi del confronto e del paragone infinito. Di più, con la luce di tale benedizione, possiamo «perdonare gli altri». Qui prorompe la forza umanizzante della parola evangelica: tu puoi e tu devi dunque perdonare agli altri la loro differenza da te, la loro alterità, in quanto è un’alterità voluta e benedetta dal Padre. Così come voluta e benedetta dal Padre è la tua alterità e singolarità. Il tuo essere come nessun altro.