Il filosofo Miguel Benasayag - WikiCommons
«Assumere la nostra appartenenza al vivente e al campo biologico implica il fatto di riconoscere che ciascuno dei nostri atti si inscrive in una complessità che non possiamo dominare né orientare a nostro piacimento», ammonisce il filosofo e psicoanalista, oggi parigino ma originario dell’Argentina, Miguel Benasayag nel libro, scritto a quattro mani con il giornalista e storico Bastien Cany, Il ritorno dall’esilio. Ripensare il senso comune, appena pubblicato da Vita e Pensiero (pagine 136, euro 16,00).
A quale esilio allude il titolo del suo libro, professore?
«Si tratta naturalmente di un esilio immaginario, con conseguenze reali però. Quando parlo di esilio intendo l’esilio promosso da Cartesio, vale a dire l’esilio dell’uomo dalla natura di cui, peraltro, si considera padrone e possessore. Occorre precisare però, a differenza di quanto auspicato dal progetto moderno, che l’uomo in realtà non si è mai separato da essa, ma il suo esilio immaginario ha avuto conseguenze su di lui. Questo modo cartesiano di abitare il mondo ha trovato al giorno d’oggi la sua acme. Mai come ora il massimo di produzione genera il massimo di distruzione. Si tratta di una situazione non più sostenibile. Per questo quasi tutti oramai sostengono che l’uomo appartiene alla natura. Il sentirsi parte di essa è una sfida che non deve ridursi al solo rispetto ma bisogna imparare a coabitarla. Non è un caso che i giuristi oggigiorno riconoscano gli animali, i fiumi, le foreste come soggetti di diritto. Accade perché l’uomo non può più pensarsi da solo e isolato».
Accanto però all’esilio di cui parla oggi emerge quello che nasce dall’uso eccessivo di piattaforme e social network...
«In effetti l’esilio è la rottura del legame, che è ciò che ci costituisce. L’essere umano. separandosi dalla natura e dagli altri per l’uso di app, smartphone, social network, ha perduto anche se stesso. Non sono tecnofobo e penso che la rete sia comoda ma la comodità, per il vivente, rischia di tradursi in una trappola. In Africa, per allontanare le formiche dalle proprie abitazioni, si cospargono di zucchero le vicinanze del formicaio. Le formiche però, dopo i primi momenti, anziché rimanere dove c’è abbondanza di zucchero si avventurano più lontano per cercarne altro. Non si accontentano dei comfort. Sanno che è pericoloso per il vivente abbandonarsi alla comodità perché impedisce l’esplorazione del possibile. E quello che avviene sul web, quando si naviga alla ricerca di informazioni, non è esplorazione perché non c’è esperienza».
Perché oggi l’uomo incontra così tanta difficoltà a pensare un futuro e dei possibili praticabili?
«All’acronimo Tina, there is not alternative, non dobbiamo rispondere proponendo un’alternativa animata da un progetto politico come in passato è stato il comunismo».
Può spiegare questa idea?
«Dobbiamo riflettere sul futuro che, in passato era considerato una promessa oggi invece è una minaccia. È importante che il futuro si pensi come una possibilità del presente e liberarlo dal giogo dell’istantaneità. Va pensato insieme al possibile e non considerarlo solo come uno sviluppo lineare del presente. Solo così è possibile riconoscere che la vita è la trascendenza dentro l’immanenza, o, per dirla diversamente, vivere significa riconoscere l’irreversibile dentro l’effimero e cercare qualcosa oltre l’effimero».
Sembra il sogno dei transumanisti...
«Tutt’altro. Occorre rifiutare la trascendenza che la macchina ci offre e che i transumanisti rilanciano agitando davanti gli occhi il miraggio dei cyborg. Dobbiamo ritrovare la familiarità con il fragile e l’effimero e non espellere il negativo dalla vita come la modernità ha tentato di fare. Occorre attivare un’estetica per desiderare i cicli della vita, che custodiscono anche fragilità e il negativo, attraverso esperienze concrete, locali e situate. Le semplici esperienze morali non bastano».
E i riti di cui parla aiutano in questo?
«I riti corrispondono ai ritmi del vivente e ai ritmi tellurici. La rapidità delle macchine ha schiacciato il vivente intaccando i suoi ritmi. Ne siamo così condizionati al punto che per noi è impossibile seguire la cerimonia del tè come avviene in Giappone. Spendere due ore per bere l’infuso per gli occidentali è troppo. Come la macchina abbia attaccato i ritmi del vivente lo si riscontra in ambito psichiatrico, dove molti pazienti sono affetti da patologie dovute al fatto che loro funzionano troppo bene ma a scapito dell’esistere».
Reputa che il senso comune sia una via d’uscita da questa situazione?
«Per senso comune intendo tutti i saper fare che sono in sintonia con i ritmi del vivente. Sono i saper fare che non possono essere sistematizzati e razionalizzati e nascono dalle esperienze e non dagli esperimenti. Il problema è che l’Occidente ha contrapposto, a differenza di altre civiltà, il senso comune alla razionalità. E in Occidente, alla fine, questa ha soffocato l’esperienza staccandosi dalla realtà. Non dico che si debba tornare al passato ma come Goethe, quando parla del passaggio dall’alchimia alla chimica, credo che sia importante accogliere i contributi della chimica senza però dimenticare gli apporti dell’alchimia. Da qui il nostro compito di riattivare il senso comune come esperienza».
Come farlo?
«Intanto occorre promuovere degli atelier sociali locali e situati che aiutino a ricreare un rapporto di legame con la natura e con l’esperienza rompendo così con l’esilio di cui si parlava all’inizio. Un ruolo importante poi lo può giocare la scuola purché resista alla pedagogia delle competenze oggi tanto di moda perché non sono altro che un sapere utile all’industria e al commercio».
E cosa deve fare?
«La scuola deve coltivare il tempo dell’inutile e il gusto dell’esplorazione. I bambini non possono conoscere le piante esplorando il web, ma devono farne esperienza in giardino. Per riattivare il senso comune la scuola deve resistere all’idea che gli uomini siano sempre in difetto di qualcosa, sempre in una condizione di mancanza. Non si tratta di modificare se stessi ma di insegnare ai bimbi a esplorare il proprio possibile. A scuola occorre imparare a esistere e non a funzionare, consapevoli che le competenze possono essere sviluppate solo se un bambino è prima strutturato. L’educazione vale se è in grado di renderlo capace di abitare la propria vita, convincendolo che non deve cercare di essere qualcuno perché è già qualcuno».