sabato 18 novembre 2023
Il filosofo argentino Miguel Benasayag: «Ai venditori di sicurezza rispondiamo che l’illusione la conosciamo già. Dobbiamo invece assumere la fragilità ed elogiare "l’intranquillità"»
Miguel Benasayag

Miguel Benasayag - Olivier Ezratty

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Pubblichiamo alcune pagine del libro di Miguel Benasayag e Teodoro Cohen L'epoca dell’intranquillità: lettera alle nuove generazioni (Vita e Pensiero), che viene presentato oggi alle 20 a Milano nel Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, nell'ambito di BookCity.

La distruzione, l’orizzonte minaccioso, sono le condizioni in cui sviluppare il nostro agire. Entrare in amicizia con il divenire ci permette di sostenere e seguire il desiderio di vita» La minaccia provoca insicurezza. Un’epoca oscura e caotica è quindi governata dall’insicurezza in ogni suo ambito: dal modo di vivere la propria vita o di accompagnare gli studi, alla gestione di un Paese o di una città, fino al modo di relazionarsi con gli altri. È l’insicurezza che amplifica e giustifica il ritmo dell’urgenza, del non perdere tempo, di lasciare da parte ogni affinità elettiva, di sacrificare le proprie libertà in nome di una sicurezza illusoria. Cattivi ideologi (siano essi politici o guru di ogni tipo) sono sempre pronti ad approfittare di questa situazione, offrendo sicurezza in cambio di libertà. In realtà, però, la sicurezza è una falsa promessa: spesso, occuparsi dell’insicurezza provoca insicurezza (si pensi, ad esempio, alle politiche proibizioniste di vari Paesi del mondo che aiutano l’esplosione del narcotraffico illegale e delle violenze mafiose, o al modo di gestione, autoritario e militarizzato, della rabbia popolare nelle banlieues francesi che ha, da sempre, generato solo maggiore insicurezza). La sfida non consiste nel cercare una sicurezza diversa da quella spesso proposta da politici e ideologi, ad esempio una sicurezza più solidale o alternativa rispetto ai modelli vigenti. Non è questione di cercare una nuova sicurezza ma di cambiare la nostra attitudine esistenziale, passando dall’esperienza passiva dell’insicurezza a quella attiva dell’intranquillità. L’insicurezza è un’esperienza passiva di sofferenza, in cui il mondo esterno e le sue minacce vengono subite. Essa presuppone che si possa, perlomeno teoricamente, giungere a uno stato di sicurezza definitivo, allontanando così, una volta per tutte, l’insicurezza in atto (come promettono molti politici). Il sogno della sicurezza è il sogno del mondo del Ser e della Modernità occidentale di arrivare finalmente a un punto definitivo di assenza di negatività, a una certa fissità in cui ci si possa sedere comodi, perché sicuri e protetti. Per realizzarlo si è disposti a tutto, in particolare a delegare scelte e funzioni a chi promette di avere la soluzione in tasca e di conoscere la strada verso la sicurezza, o alle macchine e ai dispositivi informatici che, rispetto al vivente, garantiscono maggiore efficacia, funzionano. Quando ci si sente insicuri, viene quasi spontaneo affidarsi a una norma, a una legge, a un codice di condotta imposto dall’esterno. Delegare per sentirsi protetti ed evitare di assumere le sfide che si presentano. Ecco perché l’insicurezza si oppone in modo chiaro all’intranquillità propria del vivente, che non può mai raggiungere uno stato finale di soddisfazione, né può mai pensare di essere “al sicuro” una volta per tutte, perché esiste nel divenire e nella fragilità, che sono la sua condizione ontologica fondamentale. Il vivente è sempre intranquillo, deve continua- agire per continuare a essere: senza l’attività metabolica permanente, ogni vivente morirebbe. Se non fosse in uno scambio continuo di materia ed energia con l’ambiente, se non perdesse continuamente alcuni elementi materiali, l’organismo non potrebbe continuare a vivere. Come ricorda Jonas, per gli organismi viventi «l’essere, invece di uno stato dato, è una possibilità costante che sempre di nuovo bisogna afferrare, opponendosi al suo contrario sempre presente, il nonessere, che inevitabilmente finirà per inghiottirlo». L’essere del vivente contiene sempre la possibilità di non-essere più, di morire: ecco perché è necessario uno sforzo, quel conatus spinoziano necessario per continuare a esi-stere e a esprimere la propria potenza. Nessun vivente è mai sazio, assestato, soddisfatto una volta per tutte. Il cuore non può smettere di battere, le sinapsi di attivarsi: la vita è sinonimo di divenire. All’interno di questo divenire rischioso, è proprio l’intranquillità che caratterizza il vivente a permettergli di assumere le sfide che gli si presentano, di rinnovarsi continuamente, di aprire un orizzonte di trascendenza temporale e spaziale che caratterizza il presente situazionale e multidimensionale di cui abbiamo scritto. L’idea che gli esseri viventi abbiano come obiettivo di conservarsi tali e quali sono ora, in una sorta d’immobilità o fissità metafisica, è sbagliata. Come ricorda Canguilhem, infatti, l’organismo sano cerca di realizzare la propria natura, seguire quindi i propri tropismi e le proprie tendenze, anche a rischio di perdere la vita. Come lo scorpione della fiaba che, dopo aver convinto la rana ad attraversare un corso d’acqua sopra di lei, la punge, causando così la morte di entrambi (il tropismo dello scorpione è pungere, anche a rischio della propria sopravvivenza). Non è un’illusoria sicurezza a governare le pratiche del vivente, ma l’espressione della propria potenza di esimente stere e di agire. Il vivente non ricerca quindi una qualche sicurezza, né un comfort totale o la soddisfazione definitiva dei suoi bisogni (che è un ossimoro). Questa lezione fondamentale va trasformata in attitudine esistenziale. Entrare in amicizia col divenire significa rifiutare come illusorie le facili (e attrattive) proposte di una sicurezza definitiva come soluzione di un’epoca caotica e minacciosa; assumere e accettare la fragilità significa non rifuggire dai corpi singolari, sofferenti, imperfetti, pulsanti che siamo, preferendo il funzionamento esatto delle macchine, delegando a loro la nostra vita che vogliamo sia “gestita” efficientemente. All’ingiunzione di “stare tranquilli”, che spesso significa lasciarsi sedare da quantità insensate di psicofarmaci presi ormai al primo minimo sintomo, o autoipnotizzarsi di fronte ai nostri smartphone e alle serie Tv su cui si passa la maggior parte delle giornate, rispondiamo con un elogio dell’intranquillità, con la necessità, soprattutto in un’epoca così ricca di sfide, di rendersi presenti al presente, di capire quali siano le lotte centrali da affrontare, oggi, per difendere la vita a cui partecipiamo. L’angoscia e l’intranquillità non vanno patologizzate, ma devono essere viste come momenti di possibilità creativa, come ciò che ci mette in moto, che ci spinge a non “essere soddisfatti” una volta per tutte. Ai venditori di sicurezza rispondiamo che l’illusione già la conosciamo, e che noi non cerchiamo la sicurezza, ma la possibilità di seguire e sostenere il desiderio che ci attraversa, che è desiderio di vita, di gioia, di solidarietà. Il caos, la distruzione, l’orizzonte minaccioso per noi sono le condizioni in cui sviluppare il nostro agire.

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