martedì 7 agosto 2018
“Sembra mio figlio” si ispira alla ricerca della madre da parte di un profugo afghano da tempo in Europa: «Lo sradicamento globale è la condizione umana oggi, al di là di ogni confine»
Una scena del film “Sembra mio figlio” di Costanza Quatriglio

Una scena del film “Sembra mio figlio” di Costanza Quatriglio

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Tutto è cominciato molti anni fa, almeno dodici, durante le riprese del documentario Il mondo addosso, che la regista palermitana Costanza Quatriglio girava a Roma tra il 2005 e il 2006. Quel film raccontava le vite incrociate di minori stranieri arrivati in Italia non accompagnati ed era girato sia nei centri di prima accoglienza che nelle case-famiglia. Tra i tanti ragazzi incontrati c’era Mohammad Jan Azad, arrivato nel nostro paese dopo aver attraversato il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, per sfuggire come tanti coetanei alla furia dei talebani negli anni che hanno preceduto l’11 settembre. Nel finale del documentario diceva: «Quando incontro per le strade i ragazzi afghani, io chiedo come sono arrivati qui, da quale parte dell’Afghanistan provengono, se vengono proprio dalla mia zona... forse prima o poi conoscerò qualcuno che mi darà la possibilità di trovare la mia famiglia…». Il sogno di quel ragazzo è diventato realtà: nel 2010 Jan racconta infatti alla Quatriglio di essere riuscito a rintracciare sua madre. È cominciato così un lungo lavoro di trascrizione dei suoi racconti diventato prima il cortometraggio Breve film d’amore e libertà, in cui Jan rivive le telefonate con la madre, e poi il film Sembra mio figlio, presentato ieri al Festival di Locarno e in uscita nelle nostre sale il 20 settembre. La storia è quella di Ismail che sfuggito alle persecuzioni in Afghanistan quando era ancora bambino, vive in Europa con il fratello Hassan, ancora traumatizzato dalla violenza subita in passato. La madre, che non ha mai smesso di attendere notizie dei suoi figli, oggi non lo riconosce. «Non ho nessun figlio che si chiama Ismail», dice con un filo di voce la donna, che dopo la morte del marito si è risposata. Dopo diverse telefonate, Ismail andrà incontro al destino della sua famiglia facendo i conti con l’insensatezza della guerra e con la storia del suo popolo, gli Hazara, originariamente buddhisti, vittime di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità sia in Afghanistan che in Pakistan, dove la comunità è ciclicamente colpita da attacchi di gruppi terroristici sunniti. Erano simbolo della loro cultura i giganteschi Buddha nella roccia distrutti dai talebani nel marzo del 2001. Sceneggiato dalla regista con Doriana Leondeff e lo stesso Jan, il film è un teso, commovente apologo sui temi dell’identità e dell’appartenenza, sui quali la bravissima Quatriglio riflette da anni. «Questa storia mi ha offerto la possibilità di conoscere quella di tanti ragazzi afghani, ora uomini che vivono in tutta Europa, e di comprendere la portata epica di fatti simili a quelli raccontati nella grande tragedia classica. E da questa storia d’amore tra una madre e un figlio lungo il filo del telefono sono arrivata a conoscere la condizione di un popolo perseguitato. Ma la vicenda di Ismail ci racconta anche della condizione umana oggi, al di la dei confini geografici. Parla di sradicamento globale, impossibilità di appartenere a un solo luogo. Sembra mio figlio è insomma un film sugli esseri umani, senza alcuna distinzione». Per trovare l’attore protagonista, sono stati fatti provini in tutto il mondo, da a Kabul alla Danimarca, Norvegia, Austria, Canada. «Alla fine abbiamo trovato Basir Ahang in Italia: lui è un poeta, laureato in storia e letteratura persiana, con una memoria fisica del dolore della sua gente. È un uomo abituato a coltivare la lingua e a pensare in termini poetici. Tihana Lazovic invece mi aveva molto colpito nel film Sole alto, e nonostante molti altri provini, non mi è mai uscita dalla testa. Il film è ambientato per lo più a Trieste, nel cuore dell’Europa, mentre le scene pachistane sono in realtà girate in Iran. Ci sono voluti molti mesi per ottenere il permesso e siamo stati la prima produzione italiana a girare in Iran dopo Il deserto dei tartari ». Hassan è invece interpretato da Dawood Yousefi, che frequenta il secondo anno dell’Università per stranieri Dante Alighieri, ed è mediatore interculturale, interprete, assistente educativo culturale, fotografo, animatore, attivista per i diritti umani e nel mondo di volontariato. Il tema dell’identità, dicevamo, è al centro del film. «Anche la vecchina che nel film vende la sua sartoria a un afghano deve ridefinirsi perché il suo sapere viene trasmesso non alla figlia o alla nipote, ma a un giovane che arriva da lontano e lei deve necessariamente fare i conti con un altrove. L’identità te la costruisci con l’esperienza della tua vita, ma non è qualcosa di rigido. Ismail beve, fuma, ha una ragazza europea, ma conosce i codici di comportamento del suo mondo e parla la sua lingua». E a proposito del pensante clima di intolleranza e di razzismo, la regista afferma: «Sono caduti i freni inibitori che hanno consentito dopo la Seconda guerra mondiale di tenere a bada istinti mai sopiti. Mi spaventa non solo la voce di Salvini, ma anche il vicino di casa. Oggi si fa a gara a chi è più crudele. Noi abbiamo conosciuto i grandi vecchi che hanno vissuto la Resistenza o la Shoah e mi chiedo cosa accadrà quando a breve i testimoni dei grandi orrori del Novecento non ci saranno più. Ognuno fa i propri gesti per denunciare tutto questo, io faccio film, il cinema è il linguaggio attraverso il quale mi esprimo».

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