mercoledì 12 ottobre 2016
I flussi di massa ci inquietano non solo per la minaccia dell’islam, ma perché rappresentano una forte denuncia contro l’assetto del pianeta Una sfida profetica per ripensare ai fondamenti della vita collettiva: e dalla capacità di raccoglierla dipenderà la tenuta delle democrazie
 MIGRANTI, J'accuse all'ingiustizia del mondo
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Ormai oltre un quarto di secolo fa, in una città resa inquieta dalla presenza di poche migliaia di 'forestieri', inaspettatamente approdati nella «Milano da bere», il cardinal Martini parlò dell’immigrazione come di un’occasione profetica. Con straordinaria lungimiranza, il pastore di Milano definiva gli stranieri come coloro sui quali si scarica l’insoddisfazione per i problemi che non sappiamo risolvere, ma anche gli autentici poveri tra i più poveri, e sollevava alcune questioni che oggi appaiono ancor più drammatiche di allora. A quasi trent’anni di distanza, assistiamo a un’imponente emergenza umanitaria, generata in primo luogo dalle condizioni di oppressione in cui molte popolazioni sono costrette a vivere; a un’Europa pervasa da rigurgiti xenofobi, che proprio nella paura dell’islam trovano il loro motivo catalizzatore, e che rischia di vedere sgretolarsi il progetto di dar vita a uno spazio comune custode dei diritti e delle libertà sotto la minaccia di una 'invasione' e del timore di dover farsi carico di tutti i poveri del mondo; a un meschino gioco al rimpallo in cui l’esigenza di liberarsi dal 'peso' dei profughi ha la meglio sulla disponibilità a condividere la responsabilità nella gestione di un’emergenza umanitaria di portata epocale, peraltro destinata a prolungarsi per un tempo così lungo da non poter nemmeno più essere definita tale.  Per tutte queste ragioni, forse mai come oggi i processi migratori costituiscono per l’Italia, per l’Europa e per il mondo intero una sfida profetica. Al punto che proprio dalla capacità di raccogliere questa sfida dipenderà il futuro del pianeta, la tenuta delle nostre democrazie, la qualità della convivenza. Buona parte delle migrazioni dell’epoca contemporanea è da ascrivere a un sistema profondamente iniquo nella distribuzione delle ricchezze e delle opportunità, e all’aggravamento delle disuguaglianze su scala internazionale, tale da rendere sempre più porosa la stessa distinzione tra le migrazioni economiche – ovvero volontarie – e quelle forzate. Le migrazioni di massa di questi mesi, con il loro pressoché quotidiano bollettino di morti accertati e di dispersi in mare, sconfessano invece ogni tentativo d’inquadrare la mobilità umana secondo le rassicuranti tipologie costruite, quasi sempre, dalla prospettiva delle nazioni economicamente e politicamente dominanti. Più che un 'voto coi piedi' di chi si lascia alle spalle regimi incapaci di garantire un livello minimo di sicurezza e di prospettive per il futuro, questi fenomeni sembrerebbero rappresentare la denuncia rivolta a un intero assetto mondiale, che ha reso un miraggio per centinaia di migliaia di immigrati l’approdo in un’Europa ancora impegnata a medicare le ferite della crisi. Piuttosto che il diritto a migrare, a dover essere posto a tema è dunque il diritto a non emigrare. Se le migrazioni internazionali obbligano le democrazie a ridefinire l’idea d’appartenenza e di cittadinanza, andando oltre le frontiere di una concezione nazionalistica, esse rappresentano, al tempo stesso, un’occasione preziosa, davvero profetica, per ripensare ai fondamenti della vita collettiva. Vale a dire, per interrogarci sui valori che regolano la vita collettiva, sulle concezioni dell’appartenenza e della giustizia, sui criteri con cui disciplinare l’ammissibilità di comportamenti non conformisti, sui principi cui deve ispirarsi lo stesso dialogo con l’alterità e sugli elementi non derogabili, che delimitano il quadro entro il quale può esprimersi lo stesso contributo dei migranti alla costruzione di una nuova idea di società. Colpisce e sconcerta, al riguardo, come il dibattito in tema di cittadinanza sia sostanzialmente appiattito sugli aspetti tecnici e procedurali, in ottemperanza all’attuale deriva tecnicista; perdendo così una formidabile occasione di auto-riflessività, ovvero un’occasione per interrogarci su chi siamo e su quale identità vogliamo trasmettere alle generazioni che verranno. Nel cui ambito, giova ricordarlo, una quota cospicua sarà rappresentata proprio dai figli dell’immigrazione. L’immigrazione disturba perché si tratta di un fenomeno che, per sua natura, sfida i confini di una comunità; non soltanto quelli fisici e politici, ma anche quelli identitari, rimettendo in discussione i principi e i valori su cui si fonda la convivenza. Ciò che occorre non perdere di vista è come anche – o forse soprattutto – attraverso le scelte in materia di riconoscimento dell’asilo e delle altre forme di protezione umanitaria una società afferma, in modo più o meno consapevole, la propria identità, ribadendo quelli che sono valori e principi che non tollerano violazioni. È proprio l’identità più profonda dell’Europa, quella che ha generato il principio della dignità di ogni persona e l’idea di una solidarietà istituzionalizzata, che rischierebbe l’imbarbarimento nel momento in cui pressioni di carattere securitario o finanziario la portassero ad abdicare ai principi fondamentali della sua civiltà e, cosa forse ancor più grave, a venir meno al dovere di lasciarli in dote alle future generazioni.
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