martedì 13 gennaio 2015
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I premi, racconta, «li metto su una mensola e tiro dritto con il mio lavoro perché la mia regia migliore non l’ho ancora fatta, è quella che farò in futuro». Tiene invece «bene in vista sulla scrivania gli spettacoli meno riusciti». Perché per Damiano Michieletto «sono le cose che riescono meno bene quelle dalle quali si impara di più: si impara a non ripetere gli stessi errori». Il regista veneziano, classe 1975, ha da poco vinto l’Oscar della lirica ed è stato insignito del riconoscimento di Veneziano dell’anno 2014. Lo attende la sua prima regia per il Piccolo Teatro di Milano. Ha in mano contratti con i maggiori teatri europei: a Londra farà Guglielmo Tell di Rossini e il dittico Cavalleria rusticana e Pagliacci. In Italia prepara un nuovo Flauto magico per la Fenice di Venezia. Mentre a Bologna domenica hanno ripreso il suo Ballo in maschera che nel 2013 aveva suscitato polemiche al Teatro alla Scala. «Nelle scelte che si fanno occorre prendersi le proprie responsabilità» dice, convinto di «non essere assolutamente il fenomeno della lirica».Eppure, Michieletto, i teatri di mezzo mondo fanno a gara per avere una sua regia in cartellone. La Scala l’ha prenotata nuovamente. Come fa a non montarsi la testa?«Non ho tempo. Quando hai tanto lavoro devi ascoltare musica, leggere testi, andare a teatro a vedere gli spettacoli degli altri registi. Non vivo il mio lavoro come autoreferenziale: andare a vedere i lavori dei colleghi ti fa capire che la tua è una proposta fra le tante e ti fa fare un bagno di umiltà».Saggezza che le viene dai 40 anni che compirà nel 2015?«Direi più che altro dal fatto di continuare a vivere come ho sempre fatto. Prendendo le cose con semplicità e concretamente, divertendomi con i colleghi con i quali mi trovo a lavorare. Convinto che il lavoro deve ispirare la vita e non assorbirla completamente».Vita che, però, entra prepotentemente nei suoi spettacoli.«Il mio immaginario è radicato profondamente nella modernità. Ma non sono uno che per forza attualizza tutto. Quando preparo una regia ascolto l’opera e, senza farmi influenzare, provo a trovare un’idea che renda interessante la storia per il pubblico di oggi. E cerco di immaginarmi cosa possa essere davvero efficace per quel tipo di partitura. Per questo la cifra di ogni mio allestimento è sempre diversa: primo perché non mi interessa rifare ciò che hanno già fatto altri, poi perché gli spettacoli devono essere diversi perché le opere sono diverse e non posso pensare di applicare uno stile preconfezionato a tutto quello che mi trovo a mettere in scena».Il suo Ballo riletto come una campagna elettorale statunitense ha fatto storcere il naso a qualcuno. Troppo moderno?«L’importante è che il racconto che si fa sia efficace. Vedo spettacoli contemporanei che mi sembrano banali e allestimenti tradizionali che hanno davvero qualcosa da dire. Se un’idea è coerente allora sono tranquillo».Il linguaggio moderno è una strategia efficace per avvicinare i giovani e provare a svecchiare un genere come la lirica?«Capire uno spettacolo e un linguaggio registico non penso sia questione di età. In questi anni mi è capitato di incontrare alcuni dei cosiddetti baby direttori con estetiche ormai vecchie e sorpassate. Detto questo occorrono strategie per avvicinare al teatro un nuovo pubblico: se un giorno avrò un compito dirigenziale voglio lavorare per portare a teatro chi non ci va mai. Sono stufo di teatri con gente che si parla addosso dove tutti sono esperti di tutto. Così la tradizione più che una virtù rischia di diventare un peso». In questi giorni prepara per l’Opera di Amsterdam un nuovissimo Viaggio a Reims, che sarà in scena dal 20 gennaio.«L’opera di Rossini è una storia senza storia. Ho pensato di ambientare il tutto in un museo che deve essere allestito e inaugurato. Alcuni personaggi sono contemporanei, gli addetti del museo. Altri sono storici, i personaggi delle tele. E alla fine al centro della sala si ricomporrà il grande quadro dell’Incoronazione nella cattedrale di Reims di Carlo X».A fine marzo la sua prima regia per il Piccolo teatro di Milano.«Lavorare sulla prosa è sempre molto importante perché nella lirica non sempre si riesce a fare tutto quello che si fa con gli attori. L’invito al Piccolo è una sfida che ho raccolto alzando l’asticella, non proponendo un classico, un titolo per andare sul sicuro, ma un testo del Novecento che è quasi una novità a livello drammaturgico: dirigerò Divine parole dove Ramón María del Valle-Inclán racconta storie di persone ai margini della società che lottano per la sopravvivenza che non è solo materiale, ma soprattutto morale. Una lotta per recuperare la spiritualità della vita in un mondo senza Dio. Un testo che parla di ipocrisia e crudeltà, scritto nel 1920, passato dalla Biennale di Venezia negli anni Cinquanta e dal quale sono stati tratti due film e un’opera lirica interpretata a Madrid da Placido Domingo».
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