venerdì 9 agosto 2019
Al Rof di Pesaro sul podio di “Semiramide”: «È il suo capolavoro assoluto. Solo la versione integrale fa apprezzare appieno equilibri armonici e drammaturgia. Con Graham Vick al centro i personaggi»
Michele Mariotti (Victor Santiago)

Michele Mariotti (Victor Santiago)

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Il carico è enorme. Un carico fisico, certo, dato che Semiramide di Giochino Rossini dura qualcosa come quattro ore. Ma non solo. «Per me è soprattutto emotivo» racconta Michele Mariotti che domenica sarà sul podio a Pesaro per il titolo inaugurale del Rossini Opera Festival, edizione numero quaranta della rassegna dedicata al compositore marchigiano. «La prima volta che ho ascoltato Semiramide era il 1992, proprio qui al Rof. Avevo tredici anni e subito mi ha preso viscere e cervello, una musica che ti cattura e che non ti lascia più. Ero tutti i giorni in teatro a seguire le prove. Era un modo per fuggire dal dolore che c’era in casa: mia mamma era malata e dopo pochi mesi morì. Ma era anche un modo di trovare conforto nella musica. Oggi salgo sul podio con un carico di emozione enorme, tanto più che l’opera racconta di una madre e di un figlio » spiega Mariotti, classe 1979, nato e cresciuto a Pesaro. «Con il regista Graham Vick abbiamo tolto alla partitura qualsiasi connotazione politica e storica per concentrarci sulle vicende dei personaggi, ancora oggi attualissime».

Che Semiramide sarà, allora, Michele Mariotti?

«Non sarà un allestimento kolossal, sarà invece un racconto psicologico, una vicenda vista con gli occhi di un bambino, Arsace, strappato alla famiglia da piccolo e sconvolto nel momento in cui scopre che Semiramide, che lo vorrebbe sposare e farlo salire al trono, è sua madre. Quella di Vick è una regia tutta giocata sui rapporti tra i personaggi, che non sovrasta mai la musica, ma che anzi si serve di essa: è la musica a scrivere la drammaturgia del racconto. In prova, vedendo come il regista ha attualizzato il dramma di Arsace ho pensato alle tante storie con protagonisti bambini che la cronaca ci racconta ancora oggi».

Sul leggio avrà l’edizione critica della partitura, proposta in versione integrale, senza tagli.

«È la caratteristica che da sempre contraddistingue gli allestimenti del Rof. Per l’edizione del quarantesimo abbiamo pensato a Semiramide che è il capolavoro belcantistico di Rossini. Dopo Ermione, partitura con la quale aveva aperto uno sguardo sul futuro rompendo gli schemi della tradizione, il compositore sente il bisogno di frenare, quasi di tornare indietro. Ecco allora che scrive questo melodramma come omaggio al passato, ma anche come laboratorio per gettare le basi per il futuro. Per comprendere la grandezza di Semiramide non si può che ascoltarla in versione integrale perché solo così si riesce a capirne la costruzione: se si iniziano a tagliare recitativi, da capo o scene si perde l’impianto complessivo, si perdono gli equilibri armonici che fanno di questo melodramma il capolavoro assoluto del musicista. E quattro ore di musica passano in un attimo.»

Vista la durata occorre un cast di maratoneti del canto?

«Semiramide si fa quando c’è un cast all’altezza. A Pesaro abbiamo voci straordinarie. Le ho scelte personalmente. La regina di Babilonia è Salome Jicia mentre Varduhi Abrahamyan è Arsace, soprano e mezzosoprano che hanno fatto con me proprio qui a Pesaro La donna del lago».

Per due settimane Pesaro celebra Rossini: dopo quarant’anni è ancora necessario un festival dedicato al compositore?

«Rossini come tutti i classici è intramontabile. Dice qualcosa a ogni epoca e a ogni uomo che lo ascolta: la sua musica, come tutta la musica, vive dell’interpretazione, di come la restituiscono gli uomini che in diverse epoche la propongono confrontandosi con essa. Da pesarese e da musicista sono convinto che serva ancora un festival perché Rossini non è certo sottovalutato (i suoi titoli sono spesso nei cartellini dei teatri), ma sicuramente mal interpretato: il rischio, ancora oggi, è quello di considerare il compositore come un autore solo di opere buffe, eppure è sul versante serio che offre il meglio di sé».

Pesaro è la sua città, il Rof è il festival ideato da suo padre Gianfranco Mariotti. Che cosa significa per lei dirigere qui?

«Significa tornare a casa. È sempre una grande gioia, ma, inutile negarlo, una grande responsabilità perché la pressione è tanta e occorre ogni volta dimostrare di essere all’altezza della fiducia che la città ripone in te. Pesaro è il luogo delle mie radici, la casa dove ritorno quando posso. Il Rof era il mio mondo dei sogni sin da bambino e ogni vota che salgo sul podio è come tornare a quei sogni, entraci dentro e riviverli. Dirigere al Rof per me significa dormire nel mio letto, cosa rara per noi artisti, nomadi per il mondo con la nostra professione».

Infatti dopo Pesaro volerà subito a Parigi per preparare La traviata di Verdi, terzo titolo che dirige quest’anno all’Opéra

«Quello con il teatro è un bellissimo rapporto, a livello artistico e umano. Ci sono professionisti che sono anche persone capaci di dimostrare calore e affetto. Dopo Les Huguenots e Don Pasquale ora tocca ora a Verdi, un nuovo allestimento di Traviata del regista Simone Stone che riporta il dramma di Violetta ad una dimensione intima che ben si sposa con gli spazi del Palais Garnier. Anche la mia lettura musicale sarà raccolta: La Traviata, d’altra parte, è un dramma da camera che si svolge in un salotto, in una casa di campagna e in una camera da letto».

Tanto melodramma, ma con gli anni la sinfonica ha trovato sempre più spazio nel suo calendario: a marzo l’atteso debutto a Santa Cecilia.

«Sinfonica e lirica si compenetrano, dirigere una arricchisce inevitabilmente il modo di affrontare l’altra. Un’orchestra sinfonica che suona l’opera – lo vedo a Pesaro con l’Orchestra Rai – porta una sensibilità sinfonica nel melodramma, ma allo stesso tempo impara a “cantare” le partiture sinfoniche. Anche per questo mi piacerebbe avere la direzione stabile di un’orchestra sinfonica».

A proposito, a dicembre si è conclusa la sua direzione musicale al Teatro Comunale di Bologna. Incarichi in vista?

«Per ora no. Una stabilità mi piacerebbe molto perché apprezzo il vivere quotidiano in teatro, il progettare insieme e il diventare parte di una squadra artistica. La costruzione del suono di un’orchestra passa inevitabilmente dalla costruzione di rapporti umani, una sfida che mi piace sempre raccogliere».

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