martedì 27 luglio 2021
La sua teoria sull’inversione dell’influenza tra colonizzatori e colonizzati, costruita sull’idea di “desiderio mimetico” di Girard, rende banale qualunque lettura postcoloniale
Michael Taussig al lavoro: è nato a Sydney il 3 aprile 1940

Michael Taussig al lavoro: è nato a Sydney il 3 aprile 1940 - -

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Si è appena allontanato a bracciate dalla spiaggia. È il terzo giorno che lo conduco in acque varie, la spiaggetta di Dervio sul lago di Como, quella di Sori, oggi quella di Bocca d’Asse. Non resiste, deve nuotare e si allontana al largo. Questo ottantunenne sembra fragile, ma il suo corpo segnato da lunghi viaggi nelle terre di mangrovie e tra gli altipiani colombiani ha una resistenza invidiabile. Ho avuto la fortuna di viaggiare con lui tra i paesi del Pacifico colombiano, le comunità nere di ex schiavi assediate da narcos, mi-litari, guerriglieri e ho visto come è stato lui a prendersi cura di me. Michael Taussig mi ringrazia oggi che «I look after him», ma non so davvero chi si sta prendendo cura di chi. Soprattutto non ci sono mai momenti di imbarazzo, solo una antica timidezza ma poi i racconti fluiscono con la sua curiosità divertita. Di che si parla? Di antropologia certamente perché Michael è uno dei più grandi antropologi viventi, ma essendo così poco accademico si parla di Lucia, della donna delle pulizie che ci ha ospitato in Colombia spiegandoci come fare funzionare il frigorifero per asciugare i panni, e poi si passa a Bataille, a Leiris, e alla scrittura. «A che serve fare documentari?». Cerco di rispondere che è un buon modo di catturare esperienze. Ribatte: «Solamente i libri rimangono, si trovano, si possono rileggere e hanno influenza sulle idee e sulle persone». Michael crede ciecamente nel potere magico delle parole, nel loro nascondere e svelare al tempo stesso, nell’inoculare il dubbio e fargli fare un salto in altre dimensioni. Anche quando parla di magia dei suoi amici sciamani nella foresta equadoriana si tratta di parole. Anche prendere l’ayahuasca o il tabacco sono processi verbali, condotti passo passo dal curandero perché si sveli qualcosa e venga reso efficace. « Conjuring, conjurar significa quello che fanno i prestigiatori, quello svelare velando, quel formare il segreto nascondendo e tutti i trucchi per far si che la magia abbia effetto». Ho imparato leggendo i suoi libri, ma soprattutto ascoltando le sue parole in pubblico a Cali, alla fondazione per artisti di Óscar Muñoz “Lugar a dudas”, l’importanza estrema della magia nella vita delle persone. Si tratta della capacità di “influenza” che persone e cose hanno su persone e cose. Un padrone degli altipiani colombiani si ammala una volta al mese e scende a valle a farsi curare dagli sciamani di valle, perché sa che la malattia gli è inviata dai suoi stessi operai che sanno fare le magie di monte. E ovviamente i curanderi di valle ridono mentre lo raccontano a Taussig. Ho visto nei neri che adesso vicino Bogotà cominciano a formare cooperative l’ammirazione per Mateo Mina, lo pseudonimo con cui Michael ha scritto cinquant’anni fa la prima storia degli schiavi neri del Cauca e delle loro lotte per affrancarsi. Oggi Michael mi racconta dei suoi maestri, di Marshall Sahlins anzitutto e poi di Burroughs, Ginsberg, della tecnica del cut/up. «Se proprio vuoi vedere un buon documentario devi guardare Savage civilization, un film di Tom Harrisson, uno strano personaggio che negli anni ’20 del 900 andò a vivere tra i Dayaki del Borneo, come loro, nudo, mangiando come loro, parlando come loro, facendo festa e andando a caccia. Al contrario di Malinowski che negli stessi anni voleva invece rimarcare la sua differenza, abbottonato fino al collo, nella sua veste da esploratore bianco, in mezzo ai Trobriandesi. Harrisson strinse talmente i legami con i suoi Dayaki da farsi paracadutare nel loro villaggio durante la guerra contro i giapponesi che avevano invaso l’isola. I Dayaki, tagliatori di testa, ebbero un effetto dirompente sui pur crudelissimi invasori». Da Harrisson passiamo a René Girard. Gli chiedo se si siano mai incontrati. «No, risponde, ci siamo incrociati ma non parlati». Eppure tutta la teoria di Taussig sulla inversione dell’influenza tra colonizzatori e colonizzati è costruita sulla idea di “desiderio mimetico” di Girard, sul fatto che nella storia del mondo e delle dominazioni a un certo punto c’è un gioco impressionante di riflessi e controriflessi. Il che rende qualunque lettura postcoloniale di una banalità disarmante. A Barcellona dieci anni fa ho assistito a una conferenza di Michael che commentava il film di Jean Rouch Les maitres foux, un rituale di possessione in una ex colonia francese dove i “neri” si facevano possedere dall’anima di De Gaulle e della moglie. Quando si legge Michael ci si rende subito conto che solo la ricerca sul campo riesce a dileguare le facilonerie del politically correct. Parliamo dell’ultimo suo libro che affronta la questione ambientale con un gioco di parole tutto suo: Mastery of non mastery in the age of meltdown. Il controllo dell’incontrollabile nell’epoca del disastro climatico. «Stiamo vivendo in un epoca di ri-incantamento della natura. Quella che credevamo fosse una realtà passiva, vittima delle operazioni umane, sta invece fighting back, reagisce in un modo tanto violento che è difficile non pensare che questa realtà non sia così inanimata e passiva come pensiamo. Oggi c’è la possibilità di una ricostruzione della epicità della natura, del suo carattere indipendente, che ci sfugge. È qui che torna la magia che è un tentativo di controllare l’incontrollabile». Mi fa cercare, siamo in auto, una buca delle lettere. Gli ho visto comporre con gli acquarelli delle cartoline dei paesaggi che abbiamo attraversato. L’ho visto sempre disegnare mentre viaggiavamo insieme. Le cartoline sono, affrancate, per i nipoti, bellissime, con una breve frase. Diventeranno un libro che accompagna l’ennesimo gioco di Taussig, il rovesciamento capitombolesco tra lo sguardo infantile e quello adulto. A Napoli, dove Michael è stato qualche giorno fa, ha visitato Jimmie Durham e Maria Thereza Alves, lui indiano cherokee, lei brasiliana, due grandi artisti che hanno lavorato sulla inversione dello sguardo, che hanno ironicamente costruito una mostra sull’Europa come se fosse una terra su cui fare ricerche etnografiche. E tutto il mondo dell’arte deve a Taussig la riflessione sull’importanza del lavoro sul campo anche per gli artisti. Nel minuscolo libretto I swear I saw this, giuro di aver visto questo, racconta gli schizzi che ha preso durante gli anni in Colombia. Come quello atroce della coppia di homeless che dormono in un tunnel di Bogotà, per sfuggire ai massacri dei paramilitares che per “collezionare cadaveri” di guerriglieri da mostrare alla stampa uccidevano i barboni per fare numero.

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