lunedì 6 giugno 2022
I fratelli De Angelis in concerto agli Arcimboldi di Milano con le loro storiche musiche di film e serie tv: «Siamo la memoria di tre generazioni, ma oggi per molti registi la musica conta meno»
I fratelli Guido e Maurizio De Angelis, in arte Oliver Onions

I fratelli Guido e Maurizio De Angelis, in arte Oliver Onions

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Una cavalcata tra i decenni e le più iconiche musiche di film e sceneggiati tv. Sul palco i loro autori, qui anche in veste di esecutori. Sono Guido e Maurizio De Angelis, ultrasettantenni e immortali Oliver Onions, il più celebre dei loro nomi d’arte. Il tour Future Memorabilia (disco uscito lo scorso ottobre), dopo Roma arriva ora a Milano, stasera agli Arcimboldi. Con loro una super band che vede sul palco Francesco Signorini (tastiere), Federico Paulovich (batteria), Riccardo di Vinci (basso), Giovanni Forestan (sax e percussioni), Filippo Piva e Andrea Garbo alle chiatarre e le coriste Rossana Carraro ed Elena Sbalchiero. A echeggiare le celeberrime note di colonne sonore dei film con Bud Spencer e Terence Hill, di Zorro, Sandokan, Orzowei, raccogliendo l’entusiasmo e la nostalgia di almeno tre generazioni.

«Vorremmo fare un concerto di sei-sette ore per riassumere al meglio tutta la nostra carriera, ma siccome dobbiamo limitarci a due ore ecco che l’impresa è stata scremare il più possibile – dicono all’unisono i fratelli De Angelis, laziali di Rocca di Papa –. Suonare davanti a un pubblico che ci segue da decenni è adrenalina pura. Chi ha amato le nostre musiche dei film e degli sceneggiati degli anni Settanta adesso ha i capelli bianchi e per noi abbracciare tutte queste persone ha un valore che va oltre la semplice emozione».

Perché siete tornati a suonare dal vivo le vostre musiche?

La modalità del concerto è qualcosa che non avevamo mai coltivato prima, per una scelta di vita, per non dover andare in giro. Siamo sempre stati più per la sala di registrazione, mandavamo avanti anzitutto la nostra musica, non sentivamo l’esigenza di essere noi a proporla. Poi nel novembre 2016 a Budapest, per ricordare Bud Spencer scomparso pochi mesi prima, siamo tornati a suonare live dopo oltre vent’anni, davanti a tredicimila persone con una band di 47 musicisti tra cui l’orchestra sinfonica di Budapest. Fu un fenomenale impatto e ora siamo qui per provare a riviverlo in teatro. A noi e al pubblico piace sentire dal vivo brani composti in una sorta di anonimato. Così ci mostriamo in musica e corpo.

Non tutte le vostre colonne sonore sono però uscite su disco...

Sì, perché la caratteristica del comporre colonne sonore comporta che talvolta alcune non siano ritenute dai discografici adatte a uscire su cd. Non sarebbe vantaggioso economicamente. Tranne nel caso di produzione di edizioni speciali soprattutto per amatori e collezionisti di colonne sonore, ma si tratta di modalità al di fuori dei normali circuiti commerciali.

Com’è iniziata la vostra carriera, con più di 120 colonne sonore realizzate?

Abbiamo iniziato alla Rca come arrangiatori, tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70 quando Morricone era già affermato con i film di Sergio Leone. Quello era davvero un periodo d’oro, ricco di fermento e prospettive. C’era una voglia matta da parte della discografia di scoprire e lanciare talenti, cantanti e cantautori. La Rca era un’autentica fucina di idee. In quel periodo ci avevano assegnato alcuni artisti di cui curare gli arrangiamenti per più di un disco anche per dare una certa riconoscibilità sonora. Tra gli altri, avevamo avuto Gabriella Ferri. Poi c’erano cantanti che vendevano milioni di dischi come Gianni Morandi, Nicola Di Bari o Gino Paoli e ci s’imbatteva in personaggi che solo più tardi sarebbero diventati mostri sacri come Lucio Dalla, che viveva letteralmente alla Rca. Una volta lo trovammo persino addormentato in un ascensore.

Avevate lavorato anche con lui?

Con Lucio abbiamo avuto una bellissima collaborazione facendo gli arrangiamenti del suo secondo album, Terra di Gaiboladel 1970. C’è un brano, Africa, con suoni nostri e del suo gruppo, gli Idoli che fanno già pensare al nostro Sandokan, andato in onda su Rai 1 all’inizio del 1976.

Invece quando è arrivata la vostra prima colona sonora?

Abbiamo esordito nel 1971 con un grande attore ma al debutto da regista, Nino Manfredi. Componemmo le musiche del film Per grazia ricevuta, premiato a Cannes come migliore opera prima.

Musiche a tratti struggenti ben diverse dalle successive, scanzonate, per Bud Spencer e Terenche Hill...

Sì, contenevano tanta malinconia perché rispecchiavano il dramma della storia di Benedetto, Manfredi stesso: un uomo combattuto, incapace di avere fede e di amare. Così come c’era tanta malinconia in Quaranta giorni di libertà, uno sceneggiato del 1974. Ma spesso nelle nostre composizione c’è questa vena di atavica nostalgia, pur non essendo intenzionale.

Qual è la vostra “filosofia” compositiva?

Cerchiamo di trovare sempre un tema da portare avanti sino alla fine per sottolineare lo spirito della narrazione. Oggigiorno però quasi tutti i registi chiedono delle situazioni musicali più epidermiche. La tendenza attuale di cinema e fiction è di escludere un certo tipo di commento sonoro che sviluppi veri e propri temi musicali portanti. C’è la richiesta di brevi interventi sonori che non svolgano un ruolo di vero e proprio commento all’immagine, ma solo di leggero supporto. Si tende ad allontanare la musica dalla centralità della scena. Ma così facendo la si minimizza. Ma il film alla fine ne perde

A quale collega avreste voluto carpire qualcosa?

Burt Bacharach, che ha appena compiuto 94 anni. Grande fonte di originalità. Ma all’ammirazione per Bacharach si affianca ovviamente quella per Ennio Morricone. Certo, sembra incredibile che gli abbiano dato l’Oscar per il film di Tarantino e non per i suoi veri capolavori, come Mission o C’era una volta in America. Morricone avrebbe dovuto vincere cinque Oscar. Ma anche questa è Hollywood.

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