giovedì 1 luglio 2021
In occasione del Centenario della nascita del Pcc due ex ambasciatori italiani; Bradanini e Menegatti, invitano a una svolta: meno pregiudizi e più relazioni fra il nostro Continente e Pechino
Una donna a Shanghai con un cartello che ricorda i cent’anni della nascita del Pcc, in occasione di una mostra al Memoriale del I Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese

Una donna a Shanghai con un cartello che ricorda i cent’anni della nascita del Pcc, in occasione di una mostra al Memoriale del I Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese - Reuters /Aly Song

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«Ma quale minaccia… gli Stati Uniti hanno più di 800 basi militari in giro per il mondo, con centinaia di testate nucleari più o meno dichiarate pronte per l’uso. Oltre 500, solo in Europa. Pechino ha solo una base, all’estero: a Gibuti, dove ce l’abbiamo perfino noi italiani… È ora di finirla con la demonizzazione della Cina. Un Paese che ha costruito la Grande Muraglia non ha mire espansionistiche. Semmai, ha quella di difendere il proprio territorio. Cosa che non sempre gli è riuscita. Nel corso dei secoli, la Cina ha certamente subito più invasioni di quante ne abbia perpetrate. E se ora sta alzando un po’ la testa è più che comprensibile. Basta pensare alle umiliazioni che ha dovuto subire durante la guerra dell’oppio, quando anche noi italiani abbiamo compiuto le nostre nefandezze. Non dobbiamo confondere il legittimo orgoglio del popolo cinese con una vera e propria minaccia, specie militare.

La cosiddetta “trappola di Tucidide” non scatterà. Il sorpasso con gli Stati Uniti probabilmente ci sarà, ma sarà un avvicendamento pacifico, giocato sul terreno dell’economia e della tecnologia. Non ci sarà una guerra, e in ogni caso non saranno certamente i cinesi a scatenarla. La deterrenza nucleare ha funzionato sinora e continuerà a funzionare. Proteggendo il mondo anche dagli imbecilli guerrafondai». Alberto Bradanini la Cina la conosce bene. Ci ha vissuto più di dieci anni, prima come consigliere commerciale, poi come Console Generale a Hong Kong, infine come ambasciatore a Pechino, dal 2013 al 2015, dove ha concluso la sua lunga e prestigiosa carriera diplomatica. Ma anche quando non era in Cina, tra il 2004 e il 2007, ha coordinato il Comitato governativo Italia-Cina, accompagnando l’ex presidente del Consiglio Prodi nella sua storica visita a Pechino nell’autunno del 2006. L’allora responsabile della politica estera del Pcc così commentò le tristi “riflessioni” di Prodi sulle difficoltà di gestire un governo di coalizione: «Ecco perché noi cinesi ci teniamo stretti il nostro sistema».

In occasione del centenario della fondazione del Partito comunista cinese, celebrato in questi giorni con grandi fasti in Cina e ovviamente ricordato anche dai media occidentali, abbiamo fatto una chiacchierata con due nostri ex ambasciatori. Il già citato Alberto Bradanini, autore di due importati saggi ( Oltre la Grande Muraglia e Lo sguardo di Nenni e la Cina di oggi e con un terzo presto in uscita per Teti Editore, dal titolo provvisorio L’irresistibile ascesa della Cina) e Gabriele Menegatti, che in Cina (e più in generale, in Asia) ha vissuto quasi tutta la sua lunga carriera e che dalle autorità di Pechino ha ricevuto numerose onorificenze e riconoscimenti. Menegatti, a Pechino ci arrivò ancora prima dello “storico” riconoscimento diplomatico (novembre 1970). Era inviato “personale” dell’allora ministro degli Esteri Amintore Fanfani: «Be’, diciamo che erano anni particolari quelli, l’Italia cercava di ritrovare un pur minimo spazio di autonomia rispetto agli Stati Uniti, e Fanfani non si fidava di Moro, che considerava fautore di un atlantismo sdraiato. Mi mandò a rinforzare l’Ufficio Ice, che era stato già aperto nel 1968, un po’ allo sbaraglio, in un certo senso, intimandomi di riferire solo a lui...». E lei obbedì, facendo un gran lavoro: in poco più di un anno l’Italia fu tra i primi a riconoscere la Repubblica Popolare: «Erano anni difficili, lo ripeto, ma “formidabili”. In giro per il mondo, Italia compresa, c’erano grandi uomini politici. Nenni, Calamandrei, Andreotti. Per poi passare a De Michelis, Prodi. Gente colta e coraggiosa... certe improvvisazioni e certe piroette odierne erano impensabili».

I cinesi sono sempre stati molto grati ad Andreotti, fu il primo leader occidentale a tornare a Pechino dopo Tienanmen…«Sì, e ricordo che molti anni dopo, nel 2010, in occasione della sua visita ufficiale a Roma, l’allora premier Wen Jiabao chiese espressamente che alla cena di gala presenziasse anche Andreotti, che ringraziò pubblicamente per la sua “scelta coraggiosa”, suscitando imbarazzo nell’allora ministro degli Esteri Frattini…». E come reagì Andreotti? «Da par suo. Attese che Wen Jiabao si sedesse di nuovo e gli sussurrò, ma io che ero lì ascoltai perfettamente, che anche in Italia, in certi momenti, esercito e polizia si erano purtroppo trovati a sparare sui propri cittadini… e si mise a parlare dei fatti di Reggio Emilia». «In realtà, e senza nulla togliere all’intelligenza politica delle persone citate – precisa l’ambasciatore Bradanini – anche questa è una narrazione dalla quale dovremmo liberarci. L’Italia da quando ha perso la guerra non è più un Paese pienamente sovrano, e tutto, ma proprio tutto quello che è successo è stato discusso e concordato con gli americani. Questo la Cina, i cui dirigenti sono persone serie e preparate, e che studiano la storia, lo sa perfettamente, e non si fa troppe illusioni. Non darei troppa importanza agli ultimi sviluppi: al cosiddetto dietrofront degli ultimi mesi, dopo l’apertura avvenuta nel 2019 con la firma del MOU sulla Via della Seta. I cinesi non puntano certo sull’Italia per espandersi in Europa, ma piuttosto su Germania e Francia. Ecco perché piuttosto che puntare su accordi vuoti quanto velleitari dovremmo puntare su una linea europea sempre più unitaria ed efficace. Il futuro delle relazioni con la Cina è legato al ruolo dell’Europa... Il resto è fuffa per i media americani e nostrani, ma in Cina non arriva nulla».

Bradanini ha seguito da molto vicino più della metà dei cento anni di storia del Pcc. Cosa pensa di aver capito della Cina che noi “occidentali” facciamo ancora fatica – o non vogliamo – capire? «Il radicamento obiettivo del partito nella società. Sbaglia chi crede in un’evoluzione di tipo sovietico, o addirittura la auspica: il popolo cinese, profondamente nazionalista, è grato al partito non solo per aver eliminato la povertà, come si usa dire oggi, ma anche e soprattutto per aver restituito sovranità, orgoglio e dignità alla nazione. Il partito, soprattutto ai tempi di Mao ma anche di Den Xiaoping e dei più recenti “timonieri”, ha certamente compiuto molti e talvolta tragici errori. Ma il popolo cinese l’ha perdonato. Hanno una grande qualità, i cinesi: non dimenticano il passato, ma vivono il presente proiettati verso il futuro. Più che mugugnare, pianificano».

Su questo punto, anche Gabriele Menegatti concorda: «La Cina, questa Cina, esiste. E dobbiamo farci i conti. Ma non per combatterla o, come va di moda dire oggi, contenerla. Evitiamo di fare come gli inglesi e i francesi, che ancora mandano le loro navi militari in giro per il mondo. Non ha senso. A Pechino ci ridono sopra. Meglio il dialogo, sempre e comunque. E per dialogo intendo discutere attorno a un tavolo, senza fare i professori: non abbiamo niente, ma proprio niente da insegnare alla Cina. Lo avevamo in passato, ed è per questo che i cinesi tutto sommato ci vogliono bene e ci rispettano. Ma ora dobbiamo rassegnarci al ruolo che ci compete. Un piccolo Paese di una penisola euroasiatica: l’Europa». Pensieri e ricordi di ambasciatori. Parola e scelte, di nuovo, sono alla politica, speriamo siano lungimiranti.

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