lunedì 27 agosto 2012
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​Potenza della distanza. E delle differenze. Enorme, la prima. Come pure le seconde. Te ne vai in giro e appena incroci lo sguardo di qualcuno che non abbia gli occhi a mandorla ti viene spontaneo sorridergli, sicuro che l’altro ricambierà. Per un attimo, ti senti a casa. Anche se ne sei lontano migliaia di chilometri e magari la persona a cui hai sorriso, ricambiato, neppure vive nel tuo continente. Figurarsi se incroci lo sguardo e ascolti le parole di qualche italiano: salutarsi diventa quasi un obbligo, scambiare chiacchiere e impressione è consequenziale. Tokyo, nei pressi del Palazzo Imperiale, nel quartiere di Chiyoda, centro della città. Due ragazze, lineamenti mediterranei, lingua italiana, arrivano da Roma, studiano il giapponese. Sorrisi, saluti, parole. E una domanda, da chi si sente in posizione di forza: «Come fai a districarti nella metropolitana senza conoscere il giapponese?». Vero, non lo conosco, neanche un po’. Eppure, non c’è nulla di più facile che orientarsi nella metro più intricata del pianeta. Un dedalo di linee che si incrociano, chilometri e chilometri di binari che servono la metropoli, una marea di stazioni che dal sottosuolo ti riportano in superficie, per di più un sistema gestito da più società, con qualche aggravio (più che altro, economico) quando c’è da transitare da una linea all’altra, se appartenenti a differenti aziende. Unico problema, la lingua. Se non ci fossero indicazioni pure per chi arriva da Occidente.
 
E allora, nulla di più facile, perfino in un sistema metropolitano forse unico al mondo. Talvolta, sembra di infilarsi in un cunicolo, per poi ritrovarsi in una città nella città, soprattutto in alcune stazioni, quelle più grandi, collegate a quelle ferroviarie. Spesso, una caotica orgia di gente, un susseguirsi di negozi, un patchwork di insegne colorate: giganteschi centri commerciali, che calamitano gente diretta al più vicino binario. Un autentico shock, al primo impatto. Puoi aver girato il mondo e viaggiato in metropolitana ovunque, ma non potrai mai esserti imbattuto in qualcosa di simile. Ti fai strada a fatica tra la folla, sfiori esercizi commerciali di ogni genere, gli occhi si posano su invenzioni che solo un popolo così votato alla perfezione potrebbe partorire. Puoi perfino approfittare di un aggeggio con cui pulire (da te, senza pagare neppure un’infinitesimale frazione di yen) le lenti dei tuoi occhiali: se non qui, nella metropolitana di Tokyo, la più incredibile del pianeta, dove? Attraversi i corridoi della metro e ti sembra di stare in un’autostrada: devi cambiare linea, trovi mille indicazioni, perfino con la distanza da percorrere a piedi, spesso enorme, anche un paio di chilometri, tanto da pensare che magari quella distanza sarebbe stato meglio coprirla in superficie.
 
Città nella città, appunto. Certo, non tutte le stazioni, ma soprattutto alcune: “Shibuya”, quella che serve il quartiere più colorato e giovanile, “Shinjuku”, a due passi dal palazzo (o, meglio, grattacielo) municipale, “Tokyo Station”, centrale come nessun’altra (da lì partono per Kyoto i famosi Shinkansen, altrimenti conosciuti come “treni proiettile”). La più utilizzata, la più grande, la più tutto. Resta una caratteristica, comune a tutte le metropolitane, in ogni angolo del pianeta e qualunque dimensione abbiano. Palesa abitudini, le svela all’occhio dello straniero. Abitudini che cambiano, qualche volta. Magari per cause di forza maggiore. Anche il Giappone che convive da sempre coi rischi di una natura un po’ folle scopre di aver paura. Non traspare dai volti impassibili dei pendolari trafelati, ma si legge nei numeri, che non tradiscono mai. Terribili terremoti e conseguenti disastri hanno acceso la spia: la metro di Tokyo rimane da record mondiale di viaggiatori, ma qualcosa è cambiato. La gente preferisce la linea ferroviaria JR, quella che viaggia in superficie, laddove la luce del sole azzera il buio delle paure. Del resto, anche per il turista curioso la Yamamote ha un percorso perfetto, come una guida mobile che ti trasporta in circolo lungo il centro della capitale, toccando le principali stazioni: “Ueno”, dove sorgono famosi musei, “Akihabara”, zona commerciale per i patiti dell’elettronica, “Shibuya” e “Harajuku”, dove la gioventù è di casa, “Shinjuku”, tempio della vita notturna. Come un anello (tipo la Linea Kol’cevaja della metro di Mosca): all’interno il centro della città, all’esterno le zone residenziali. Chiedere a un giapponese il modo migliore per visitare Tokyo equivale quasi sempre a sentirsi rispondere che bisogna salire su un treno della Linea Yamamote e fermarsi a ogni stazione. Che, poi, non è neppure una delle tredici linee che compongono la metro, ma è come se lo fosse. Si integra alla perfezione, è ugualmente rivelatrice di caratteri e costumi. La metro è così, anche a Tokyo: uno specchio che rimanda abitudini e tic di un intero popolo. Sali su un treno della metro e più che sentirti straniero pensi di essere un marziano. Occhi a mandorla, abbigliamento grigio (fanno eccezione i giovanissimi, ancora non inquadrati in una società irreggimentata): nient’altro che le punte dell’iceberg della diversità. Sono i modi che colpiscono, i comportamenti. Nel tempio della folla, il silenzio della gente è assoluto, si sentono solo lo sferragliare dei convogli e la timida vocina femminile che annuncia l’approssimarsi di una fermata. Non una chiacchierata, non una conversazione telefonica. Silenzio quasi di rigore, come per una legge non scritta. E occhi bassi, per tutti: qualcuno (pochi) sulle pagine di un libro, altri (la maggior parte) sulla tastiera di un telefonino, martoriata alla velocità della luce. Non s’incrocia uno sguardo neanche per puro caso. Se femminile, poi, impresa impossibile: l’approccio visivo, questo sconosciuto, nel Paese dell’amore spesso senza passione. Non resta che adeguarsi, pur di non essere etichettati come maleducati. È il Giappone, un altro mondo. È Tokyo, la sua capitale. Vista dalla metro, uno specchio che ne restituisce usi e costumi.
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