giovedì 27 agosto 2015
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Pepi Merisio è nato a Caravaggio nella bassa bergamasca nel 1931 e comincia a fotografare da autodidatta nel 1947. Progressivamente protagonista del mondo amatoriale degli anni Cinquanta, ottiene prestigiosi riconoscimenti in Italia e all’estero. Nel 1956 inizia la collaborazione con il Touring Club Italiano e con numerose riviste: Camera, Du, Réalité, Photo Maxima, Pirelli, Look, Famiglia Cristiana, Stern, Paris-Mach e molte altre. Nel 1962 passa al professionismo e l’anno seguente entra nello staff di Epoca, allora la più importante rivista per immagini italiana. L’ambito ideale della poetica di Merisio è, insieme con la grande tradizione contadina e popolare della provincia italiana, anche il variegato mondo cattolico. Nel 1964 pubblica proprio su Epoca il suo grande servizio “Una giornata col Papa” avviando così un lungo lavoro con Paolo VI. Mentre continua la collaborazione con grandi riviste internazionali (celebri i tre numeri monografici di Du sul Vaticano, su Siena e sull’Italia cattolica) avvia un’intensa attività editoriale. Caposaldo della sua attività di narratore per immagini è l’opera Terra di Bergamo in tre volumi, edita nel 1969 per il centenario della Banca Popolare di Bergamo. Da allora ha pubblicato più di cento libri fotografici con editori diversi. Per l’Ecra di Roma ha curato la collana Italia della nostra gente, che ha raggiunto i ventotto volumi. Nel 1980 Progresso fotografico dedica a Merisio un numero monografico. Nel 1982 è L’Editoriale Fabbri che lo accoglie nella collana I grandi fotografi. Nel 2007 la Fiaf gli dedica il volume Grandi autori. Nel 2010 la mostra Ieri in Lombardia per la Regione Lombardia nel Grattacielo Pirelli a Milano. Nel 2011 è invitato alla 54ª Biennale di Venezia. «È un’altra cosa». Ai piedi dei grattacieli di Porta Nuova a Milano, per mesi è cresciuto un campo di grano: Wheatfield, una installazione di land art di Agnes Denes. Il grano in città. Per arte, per show. E colmare, in qualche modo, una lacuna tempistica del parco in vista di Expo. Pepi Merisio, classe 1931, di Caravaggio, in provincia di Bergamo, il fotografo della civiltà contadina, la campagna l’ha vista e raccontata. Veramente.  E di fronte all’installazione “piantata” davanti al celebrato “Bosco verticale” sorride e ripensa a una sua vecchia foto: «Un uomo guida il trattore in mezzo a un campo di grano e la moglie gli porge il secchio con una tazza per bere. Uno scatto di vita vera. Una situazione famigliare. Il racconto di uno spaccato di vita e di un pezzo di Italia. Il campo in città? Il bosco verticale? Sono invece operazioni d’immagine che si fanno sul cemento – dice Merisio –. Sono quasi un’umiliazione, per me. La campagna è un’altra cosa». Non c’è il rifiuto della modernità. «I trattori sotto i grattacieli sono un “trucco” – continua – sono esperimenti pubblicitari, provocazioni». Ma la sua non è una visione negativa, semplicemente «è un’altra cosa»: «I grattacieli sono opere compiute, pulite. Sebbene siano costruzioni,  queste, lontane dai nostri modelli urbanistici». 

Malga al Lago Rotondo, nella Valle Brembana, 1967Eppure c’è un grattacielo che racconta il “sogno” verticale della Milano di Merisio, il Pirellone di Giò Ponti. «È stato un modello di costruzione che ha fatto scuola, riconciliando i palazzoni con la bellezza. È un grattacielo di cemento armato, una grande opera, che aveva allora un effetto simbolico forte. I quartieri di grattacieli ormai uniformano le città. E li trovi un po’ da tutte le parti, da New York a Singapore, passando per Londra e appunto Milano». Allora, rappresentava un simbolo di riscatto e di sviluppo. Lo narra bene una foto di Merisio: una coppia di emigranti con un bimbo in braccio, in un campo del quartiere Isola, sullo sfondo il Pirellone. Su quel terreno sterrato, oggi c’è il nuovo palazzo della Regione. Un altro grattacielo.  Fa una certa impressione vedere il fotografo dei contadini, degli alpeggi, delle piazze medievali e dei mestieri, ai piedi della Milano – ormai capitale della moda e della finanza – che si sviluppa verso l’alto. In una terra, quella lombarda che Merisio ha raccontato in maniera capillare.  «Ma il punto non è l’architettura. Non sono i grattacieli, ma come si vive sotto. È la società, il cambiamento dei ruoli, dei mestieri. Quello che mi preoccupa è la scomparsa degli artigiani, i contadini della città, che rappresentavano il sale di Milano. Qui si faceva di tutto. Adesso stanno sparendo». Nella sua vita dietro l’obiettivo, Merisio ha raccontato l’Italia che cambiava, con l’«intuizione» che qualcosa stava cambiando per sempre. «Mi è stato utile sfogliare le riviste americane. Mi sono detto: questo avverrà anche da noi con 20 anni di ritardo: lo smantellamento dell’esistente per “convertirsi” alla modernità.  Ma quale modernità? Allora c’era il dovere di raccontare. Di più, la parola giusta è “testimoniare”. E questo ha fatto la mia generazione di fotografi. Abbiamo raccontato una Italia ancora “giusta”, “umana”, mentre i nostri governanti, tutti, senza colori politici, non capivano che piccolo era anche bello e poteva essere persino ricco. Hanno preferito imitare gli Usa, la Germania e sacrificato tutto sull’altare del progresso e del cemento».  La donna con lo scialle della scalinata di Ragusa Ibla come i burattini in una corte della bergamasca, o il pellegrinaggio sul monte Autore, i lavoratori della tonnara di Favignana o nella filanda di Sotto il Monte oggi non si possono fotografare più. «Se qualcosa resiste è folklore. Non è la vita che stiamo raccontando. Quella era vita. Ora è costruito, è spettacolo. Una forzatura: “Ti faccio vedere come si faceva una volta”. Ma non è la realtà».  Il ruolo del fotografo diventa per certi versi più difficile, ma non per questo non può assolvere pienamente al suo ruolo. «Oggi c’è molta banalità. La vita è piena di banalità. Allora mi piacerebbe vedere bravi fotografi raccontare la banalità dell’oggi. Scatti che mi facciano vedere davvero come si vive adesso. Che si appostassero e aspettassero l’istante giusto per cogliere un momento di vita autentica e rappresentativa della vita che viviamo». Un esempio? «I giovani con il telefonino. Soprattutto a scuola. Sono scene di una stupidità assoluta. E sono il quotidiano della maggior parte dei giovani, se non della totalità. Com’eravamo stupidi noi a vendere tutto, oggi siamo stupidi a vivere con questo aggeggio continuamente in mano. Banalità e ossessione».  Ma non è più una scommessa fattibile per Merisio. «Sento una sorta di inimicizia d’animo, di fronte a questo mondo. Non lo capisco più, è sbagliata la mia posizione. Ed effettivamente farei fatica a dire e raccontare cosa fanno questi giovani. Vedo molta fuffa. Anche in grandi mostre che raccontano un mondo che non esiste. Sembra che costruiscano a tavolino scenografie e soggetti. E cosa raccontano? Si sentono artisti e puntano al successo». I fotografi alla Merisio hanno un’altra stoffa. Un altro stile. La fotografia “umile” e “semplice”. «Perché noi stiamo con la gente, parliamo con la gente, raccontiamo la gente. Abbiamo vissuto la realtà e quella realtà raccontiamo. Camminando e camminando. Senza sosta». Il segreto forse di una gioventù perenne. «Credo di aver girato tutta l’Italia a piedi», confessa. L’Italia di oggi è un’altra Italia rispetto alle sue scene domestiche, urbane, alla campagna e alle piazze che ha raccontato per il Touring Club e di recente anche per il ministero degli Affari Esteri, in una mostra itinerante fra le ambasciate del mondo. «Forse è cambiata anche la piazza, e il senso della piazza. Sono cambiati i luoghi». Uno sguardo che non è però di nostalgia. «No, ci mancherebbe. La nostalgia non esiste. Non mettiamoci a fare i falsi poeti. Il tempo scorre e bisogna guardare avanti. L’istante è ora. Altra cosa è la memoria e il rispetto del passato». Non c’è neanche rabbia. La parola che usa Merisio è «dispiacere». «Il dispiacere di aver perso qualcosa: non l’anticume di roba, ma quello che c’era dentro, nella vita, e che oggi non c’è». Ai piedi dei grattacieli di Porta Nuova, si raccoglie il grano. Un po’ per arte, un po’ per fiction. «Sì, è un’altra cosa».
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