martedì 29 giugno 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Con mezzo secolo di palcoscenico sulle spalle Sergio Mendes è un monumento della bossa nova che non ha perso il gusto di strizzare l’occhio all’hit-parade. «Credo di aver venduto più dischi di Stan Getz, perché lui ha inciso solo un grandissimo album di jazz samba, quello con Joao ed Astrud Gilberto, mentre a me il successo di Mas que nada ha riservato il privilegio di poterla reinventare in svariate vesti sempre molto apprezzate dal mercato» spiega lui nella elegante cornice vittoriana del Landmark Hotel di Londra col pensiero alla magica chitarra dell’amico Jorge Ben Jor, che oltre quel best-seller assoluto ha composto diverse canzoni entrate nel patrimonio mendesiano dalla porta principale a cominciare da Pais tropical.Erano i tempi del Brasil ’66, formazione straordinaria messa in piedi dal pianista di Niterói con la complicità del trombettista-produttore Herb Alpert divenuta con le sue sofisticate rivisitazioni bossa la colonna sonora di un’epoca. Una quarantina in tutto gli album dati alle stampe da Mendes in mezzo secolo di carriera; l’ultimo s’intitola Bom tempo, annovera ospiti del calibro di Milton Nascimento o Carlinhos Brown, e nella versione "de luxe" regala pure una versione della jobimiana Só tinha de ser com vocé rimissata dal nostro Nicola Conte. Ma nel precedente Encanto Mendes aveva collaborato con Jovanotti («ha una gran bella mente musicale e sono stato felice di restituirgli il favore suonando nella sua Punto») e in Oceano con Zucchero. «Nella seconda parte degli Anni Novanta ho deciso di fermarmi perché pensavo di non aver più nulla da dire» spiega. «È stato will.i.am dei Black Eyed Peas attorno al 2005 a farmi ritrovare la voglia d’incidere dischi, dopo una decina d’anni di latitanza dagli studi di registrazione. Si presentò a casa mia con tutti i miei vinili sottobraccio dicendo: "Sei uno dei musicisti che mi hanno influenzato di più, facciamo qualcosa assieme". Così è nato Timeless e l’interesse per la mia musica da parte dei giovani e giovanissimi ha rappresentato vera una sorpresa». A 69 anni, il più celebrato arrangiatore sudamericano vivente ha ancora voglia di stupirsi. La moglie – cantante di origini italiane Maria Grazia "Garaciña" Leporace, una «testa dura calabrese» come la chiama lui – spinge perché raccolga i suoi ricordi in una biografia. «Lo farò, perché di cose da raccontare ne ho davvero tante» ammette lui. «A cominciare, naturalmente, dal giorno in cui misi piede sul ferryboat Niterói-Rio per traversare la baia ed esibirmi in un club di Copacabana, o da quando debuttai davanti al pubblico parigino sotto i riflettori del Théatre des Champs Elysées. Prima di me suonava un ragazzo inglese che il pubblico accolse con qualche fischio. Finito il set lo trovai costernato davanti al mio camerino: "scusi sir, mi chiamo Elton John e sono dispiaciuto di non aver dato il meglio questa sera". Il tempo l’avrebbe ripagato ampiamente di quella giornata no». Mendes risiede a Los Angeles dal ’64. «Fuggii dalla dittatura "dei gorillas" istaurata col colpo di stato del maresciallo Humberto de Alencar Castelo Branco. Avevo il mio Trio e provavamo in un piccolo club, lo Shelley Manne Hole: ci veniva ad ascoltare anche Chet Baker. Poi Alpert mi aprì la porta della sua etichetta A&M e le radio di tutto il mondo iniziarono a trasmettere Mas que nada. Un successo». Sulla strada incontrò pure Frank Sinatra. «Nel ’68  Sinatra mi chiamò per far parte della sua orchestra insieme al batterista Buddy Rich. Anni dopo, durante le prove di un mio concerto alla Casa Bianca in onore del presidente brasiliano Joao Batista de Oliveira, spuntò alle spalle e cominciò ad armeggiare col microfono. Gli chiesi se doveva esibirsi pure lui e rispose di no, ma era stato chiamato da Nancy Reagan solo per verificare che tutto fosse a posto. Insomma, mi fece da tecnico del suono».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: