venerdì 22 luglio 2022
Andrea Mati crea giardini terapeutici e spirituali: «Il verde ha un ruolo fondamentale nel recupero delle persone con problemi psicologici o relazionali e aiuta anche l’elaborazione del lutto»
Persone al lavoro in un giardino terapeutico di Andrea Mati

Persone al lavoro in un giardino terapeutico di Andrea Mati - Matteo Carassale

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Si possono percorre i sentieri di un giardino, sentirne i profumi, lasciarsi sfiorare dagli esili steli delle graminacee ornamentali, farsi avvolgere da siepi sempreverdi, lasciare che lo sguardo si posi su un albero o sui piccoli frutti di un pruno d’altri tempi; si possono posare i piedi su un prato ben curato facendosi guidare dal lontano gocciare di una fontana o dai colori di rigogliosi filari di melanzane… si può fare tutto questo e sentirsi salire dentro il desiderio di accogliere, di riabbracciare amici perduti di vista e persino accudire l’umanità sofferente? Può sembrare una domanda insolita, costruita a bella posta, eppure in essa non c’è alcuna forma di retorica. Ci si può trovare, invece, il segreto del vero ambientalismo: il pulsare di vite che si incontrano nutrendosi l’una dell’altra. Una connessione di uomo e natura nel servizio e nell’utilità, scoprendo che ciò che conta davvero è nella cura della vita, nella sintonia con l’amore che nasce dal cuore, ma che si tocca con mano.

Capita visitando i giardini terapeutici e spirituali ideati e concretamente sperimentati da Andrea Mati in decenni di amorosa immersione fra piante e varia umanità: "L’origine di tanti malesseri che ci affliggono è nell’assenza di armonia fra i viventi. Ma non basta stare nella natura, passeggiare in un bosco. Se bastasse questo i contadini sarebbero tutti felici, ma non è così. La parola chiave è connessione, cioè maturare la sensibilità dell’attenzione e dell’ascolto nei confronti del mondo vegetale. E questo richiede molta umiltà e disposizione a entrare in sintonia".

Andrea Mati

Andrea Mati - -

Andrea Mati vive a Pistoia, cuore del vivaismo italiano ed europeo. Ha alle spalle studi di architettura e decenni di volontariato sociale. Con i suoi due fratelli è titolare di un’azienda vivaistica nata nel 1909. Una passione per le piante e per gli esseri umani, soprattutto i più fragili, che lo ha portato col tempo a farne un tutt’uno fondando una cooperativa che si occupa di giardinaggio e cura del verde nella quale fin dal principio ha assunto persone deboli ed emarginate. Grazie alla continua collaborazione in tanti anni con la Comunità incontro di Don Pierino Gelmini e con la Comunità di San Patrignano, con la progressiva maturazione dell’idea di realizzare appositi giardini e orti terapeutici per patologie e disagi psicologici, lo hanno spinto a fondare anche la Cooperativa sociale "Puccini-Conversini" che si occupa di riabilitazione sociale e lavorativa nel verde di soggetti svantaggiati.

Un vivaista-altruista, un giardiniere-filantropo, un terapista-contadino… non è facile definire la professionalità di Mati. Certamente conversare con lui passeggiando nei "suoi" giardini riconcilia con la parola ecologia, riportandola al significato etimologico di discorso intorno alla casa comune. Lui la chiama la "rivoluzione del metro quadro" (sottotitolo del suo recentissimo libro Salvarsi con il verde, Giunti, pagine 219, euro 18), invitando ciascuno a cambiare il mondo prendendosi cura del piccolo spazio di sua competenza. Ma la vera rivoluzione, come ben spiega nel libro, deriva dal fatto che lui sia partito proprio dalla cura dell’uomo e dall’attenzione per i più deboli riaffermando, implicitamente, che l’amore per l’umanità si traduce invariabilmente in amore per la sua casa, la "casa di tutti i viventi", così come, viceversa, il vero amore per la natura non può prescindere dall’amore per l’uomo.

"La rivoluzione del metro quadro mette ogni singolo uomo con la sua responsabilità al centro di un progetto comune, perché il nostro futuro dipende da come ci relazioniamo con quel piccolo spazio verde che ci offre ossigeno, cibo, luce, acqua. E trent’anni di esperienza con persone salvate dall’essere entrate in sintonia con le piante mi fanno dire che curare l’ambiente significa prendersi cura degli esseri umani che lo vivono".

Come è iniziata questa avventura?

Quando il professore di religione a scuola (siamo negli anni Settanta, ndr) ci faceva ascoltare su disco le conferenze di Raoul Follereau. Mi colpì il suo amore per i sofferenti e l’invito ai giovani a impegnarsi nella difesa dei più deboli e dei grandi ideali, a non andare in pensione quando si è ancora in fasce, ad amarsi gli uni gli altri perché, diceva, è così che si costruisce il futuro. Mi sono interessato all’opera di questo grande uomo dalla fede concreta e ancora oggi il suo libro Stringere le mani del mondo mi ispira e lo porto sempre con me.

Ideale cristiano e concretezza…

Decisi subito di dedicarmi alle persone in difficoltà. A 18 anni ho chiesto di fare il servizio civile pensando di lavorare con i poveri e i senzatetto, invece don Giordano Favillini, l’allora direttore della Caritas di Pistoia alla quale ero stato assegnato, mi propose di lavorare al Ceis, una comunità di recupero diretta da suor Gertrude, sulle colline sopra Larciano. Io non volevo, ma dopo un primo periodo mi trovai molto bene. Sul finire degli anni Ottanta la Comunità di San Patrignano chiese all’azienda di famiglia di sistemare e di curare tutto il verde della grande struttura di recupero che andava sorgendo. Me ne occupai io ed è stata una rivelazione.

Cosa intende?

Il lavoro si è protratto negli anni e si è esteso alle comunità di don Gelmini. Due contesti in cui ho cominciato a capire come e quanto il rapporto col mondo vegetale potesse avere un effetto terapeutico per quei giovani distrutti e demotivati dalle dipendenze: prendersi cura delle piante poteva convincere queste persone a prendersi cura di se stesse. Lì, proseguendo sulle orme di Follereau, ho capito cosa vuol dire concretezza… e oggi credo che in tutti i campi sia davvero finito il tempo delle chiacchiere. Servono persone desiderose di fare, persone che fanno.

A proposito di Follereau viene in mente una sua preghiera che al primo verso chiede "Signore insegnaci a non amare solo noi stessi"...

Edward Wilson, il padre della sociobiologia, sosteneva che il contatto con la natura induce nell’essere umano un istintivo desiderio di relazione con le forme viventi e questo costituisce un primo passo per decentrarsi da noi stessi. Per lo psichiatra e pensatore ecologista James Hillman il malessere che affligge gran parte del mondo Occidentale è spiegabile col progressivo allontanamento dalla primigenia armonia fra i viventi che regnava nell’Eden. Viviamo in una società narcisistica e competitiva che ci rende insensibili nei confronti dei deboli, di chi resta indietro, i ritmi dell’iperconnessione digitale ci allontanano dai ritmi della natura ai quali però siamo legati indissolubilmente, anche se non lo vogliamo. Tutto questo crea conflitti, disarmonie relazionali e affettive.

E i suoi oltre trent’anni di esperienza?

Testimoniano che il verde ha un ruolo fondamentale nel recupero delle persone con ogni forma di dipendenza (droghe, alcol, gioco…), con chi ha problemi psicologici e relazionali, disturbi dell’alimentazione… ambiti in cui ho visto persone morte tornare a vivere. Anni di collaborazione con terapisti, psicologi, neurologi e psichiatri hanno portato a sperimentare grandi miglioramenti anche con chi ha disturbi dello spettro autistico, con gli affetti da varie forme di demenza senile, con i down e non solo.

Con modalità specifiche per ogni patologia?

I giardini devono chiamare le persone secondo i loro problemi, le loro necessità. Per chi ha gravi forme di dipendenza, per esempio, l’obiettivo è giungere a instaurare un legame relazionale: più c’è dialogo più ci si avvicina alla salvezza della persona. In questo caso è molto utile l’utilizzo di piante scartate, brutte o sofferenti perché chiamano alla cura: l’emarginato si prende cura delle piante emarginate e col loro recupero può giungere a scoprire che la vita è fragile, ma che sa anche essere indistruttibile. È la bellezza della fragilità. In molti casi questo si trasforma in un desiderio di cura che diventa un’abilità, una professione nel giardinaggio, nell’orticoltura…

La cura che cura?

Certamente. Il grande segreto delle piante è di farci prendere coscienza della vita, di essere vivi noi con loro. Ma, ripeto, piante e giardini devono essere realizzati per rispondere alle esigenze delle singole patologie: un bosco selvaggio, per intenderci, in molti casi potrebbe essere controproducente, mentre un ben orchestrato incontro con piante che fioriscono, profumano o fruttificano in autunno e in inverno può essere di grande beneficio per chi soffre di depressione offrendo al terapeuta gli agganci giusti per intervenire. Così per i malati di Alzhaimer, per gli affetti da disturbi alimentari, per i non vedenti servono giardini fortemente sensoriali, ma ciascuno secondo le necessità specifiche. Per le demenze senili devono saper stimolare ricordi e relazioni, per gli anoressici e i bulimici un percorso armonico negli odori e nei sapori della vita. I profumi e i rumori delle piante e dell’acqua diventano fondamentali in un giardino per i non vedenti in cui i ciechi dalla nascita possono essere guida per chi ha subito questa patologia negli anni aiutandoli a percepire una nuova vita.

Ha realizzato anche giardini spirituali?

Per alcune comunità religiose come per quella dei Ricostruttori a Prato. Uno spazio verde che è al contempo uno spazio di lavoro secondo lo spirito dell’Ora et labora, ma anche un percorso di preghiera che si può intraprendere con una guida spirituale e in piccoli gruppi. Da una parte si va verso l’acqua che scende dalla montagna, generatrice di vita per le persone e per le piante; dall’altra si va verso l’orto in cui il lavoro quotidiano e accorto senza uso di pesticidi produce bellezza, rispetto per la vita e sostentamento; si può andare verso l’uliveto col suo valore simbolico, di tanto in tanto si incontrato piante da frutto, si può sostare in meditazione in un prato circondato da grandi alberi…

Ci sono anche giardini capaci di generare speranza nel fine vita o nell’elaborazione del lutto?

Con i miei collaboratori ne abbiamo elaborato uno con due aree unite da una strada che dallo spazio boscato e un po’ selvaggio e confuso della vita presente conduce verso un’area ben curata con un prato verde, ortaggi ed erbe aromatiche da curare e sullo sfondo una fontana zampillante. Ad essa si accede attraverso un cancello in ferro battuto. Qui un terapeuta accoglie il paziente guidandolo nella difficile scelta di proiettarsi verso il futuro rileggendo la propria vita o restare chiuso nel dolore e nei ricordi del passato.


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