mercoledì 17 settembre 2014
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​​Ormai è una pagina di “preistoria” materana quella frase che Giovanni Ricciardi, professione guida turistica, si sentiva ripetere nel 1992 quando accompagnava i primi gruppi di visitatori fra i Sassi. «Da ddo’ la pigghiet chiss giargianis?», chiedevano le donne ai crocicchi o il barista. «Già, mi dicevano: “Dove li hai presi questi germanici?”. In realtà erano giapponesi. Trascorrevano le vacanze nel Salento e per mezza giornata li convincevamo a fare tappa qua. Perché vent’anni fa eravamo una terra pressoché sconosciuta. E noi guide venivamo viste in paese come accattoni delle mance dei turisti». Oggi la Matera che ambisce a diventare Capitale europea della cultura nel 2019 fa pagare anche mille euro per una notte nei Sassi. E il suo quotidiano è segnato dal cineturismo, dai venditori nelle grotte, dagli artigiani del tufo, dagli americani stregati dal fascino arcaico. Per la prima volta, lo scorso anno, è stato superato il traguardo dei 300mila visitatori in 12 mesi. Mica male per una città di 60mila abitanti dove c’è la stazione ma non arrivano i treni delle Fs e l’aeroporto più vicino si trova a Bari, in un’altra regione. «Potevamo accontentarci di questa terza rivoluzione. Invece abbiamo scelto di rilanciare: con la corsa europea», spiega il sindaco Salvatore Adduce.  Le altre due rivoluzioni, di cui parla l’ex parlamentare con un passato nel Pci e un presente nel Pd, raccontano la sconfitta e poi la rinascita della città. La prima è quella scaturita dalla legge del 1952 che sancisce la «vergogna nazionale» della vita nelle grotte, piegata dalla miseria, dalla promiscuità con gli animali, dall’alta mortalità infantile, e impone l’esodo dei 17mila “figli dei Sassi”. La seconda ha il volto di una battaglia civile intrapresa negli anni Ottanta dai giovani del circolo culturale “La scaletta” che apre le porte al ritorno nei Sassi. Adesso vivono in duemila dentro quegli anfratti, testimoni della millenaria civiltà rupestre che l’Unesco ha proclamato patrimonio dell’umanità. «Le vicende dell’ultimo mezzo secolo – afferma il sindaco – dimostrano che anche il luogo meno adatto a capitalizzare saperi e conoscenze può rovesciare la sua condizione di arretratezza investendo sulla cultura». Dal suo ufficio, all’ultimo piano di un grattacielo che è il municipio, il cuore antico di Matera somiglia a un labirinto che il sole colora di bianco. Il progetto di candidatura presenta la città affidandosi  all’ossimoro “Futuro remoto”. Chi ci sbarca da visitatore è di solito accompagnato da immagini di maniera. Ieri erano quelle dell’“inferno” narrato da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli. Oggi sono tratte dai film: The passion di Mel Gibson o Basilicata coast to coast  di Rocco Papaleo. «Visioni stereotipate che non ci rappresentano », avverte Rita, anche lei guida turistica.  Un po’ come è accaduto con la riappropriazione dei Sassi, l’ambizione materana di conquistare la ribalta europea è partita da un gruppo di ragazzi. C’era anche Giovanni in quell’avanguardia che aveva lanciato l’associazione “Matera 2019” quando venne comunicato che sarebbe toccato all’Italia ospitare la Capitale della cultura. Era il 2008. «Oggi – prosegue il sindaco – la candidatura è una scommessa per tutta la Lucania ed è sostenuta persino da Potenza. Sa, riuscire a mettere insieme Matera e Potenza è come immaginare che Pisa e Livorno si alleino». Epperò il sogno internazionale costa: la Regione Basilicata ha già investito 3 milioni di euro e il Comune 300mila. Un record rispetto alle cinque città rivali. E una parte dei fondi si è tradotta in una martellante campagna pubblicitaria. Ma almeno la competizione ha galvanizzato la città. Alle terrazze delle case – persino in periferia – sventolano le bandiere di “Matera 2019”. Il cameriere serve ai tavoli con la spilla della candidatura. I negozi mettono in bella vista il logo del progetto. E le chiese rupestri diventate musei d’arte contemporanea danno il benvenuto richiamando l’impresa.
«Il nostro popolo ha un approccio riflessivo, accogliente, fortemente umano. Ma ha bisogno di quel volano che dia la spinta un po’ più fattiva, come è richiesto dai tempi che viviamo», spiega l’arcivescovo di Matera-Irsina, Salvatore Ligorio. La Curia è accanto alla Cattedrale, sulla vetta della Civita, in mezzo ai Sassi. «Qui i valori della famiglia, del vicinato, del senso del dovere e del lavoro riemergono ogni giorno e producono un riflesso positivo che può ritornare a vantaggio anche dell’Europa». Non è un caso che l’arcidiocesi abbia firmato un’intesa per appoggiare la candidatura. L’idea-cardine intorno a cui è stato costruito il dossier è quella dell’“abitante culturale”. «Matera è una delle più antiche polis abitate nel mondo: da diecimila anni si vive qui», spiega la soprintendente regionale ai beni artistici, Marta Giuseppina Ragozzino. Milanese di nascita, romana d’adozione, è in città da diversi anni. «Non ci possiamo limitare a staccare i biglietti in un contenitore come questo», dice fra le stanze del seicentesco Palazzo Lanfranchi che ospita il Museo d’arte medievale e moderna della Basilicata. In queste settimane accoglie una mostra sui cinquant’anni de Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini che qui trovò la “sua” Gerusalemme. Una pellicola richiamata più che altro dagli intellettuali locali ma poco dalla città “comune” e dai turisti, attratti soprattutto dai set naturali delle pellicole da botteghino. «Abbiamo bisogno di cittadini che si sentano responsabili e che partecipino alla vita culturale da protagonisti – continua la soprintendente – . Qui si può realizzare perché vivere nei Sassi significa abitare la cultura rupestre di cui Matera è la capitale». Comunque non basta: «E allora abbiamo provato a portare l’arte di Palazzo Lanfranchi in una contrada difficile com’è Serra Rifusa», racconta Ragozzino. Per una giornata alcune opere hanno traslocato nella parrocchia del quartiere, nel centro di igiene mentale, nella casa per anziani e in tre abitazioni. Titolo dell’esposizione itinerante: Carlo Levi: da Cristo si è fermato a Eboli a Lucania ’61. Già, perché i dipinti di Levi sono stati donati a Matera. Certo è curioso che il narratore torinese, osannato e citato dalla Matera colta, non venga amato della gente nata qui. «I turisti – riferisce Giovanni – ci chiedono ancora dove si possono trovare i “trogloditi” citati da Levi. Lo scrittore ci ha osservato con lo sguardo di un borghese nordico e non ha compreso il portato della nostra civiltà contadina». Però, quando si è trattato di scegliere il direttore del Comitato  “Matera 2019”, la città ha ingaggiato un altro piemontese: Paolo Verri. Da mille giorni si divide fra la Lucania e Milano dove è responsabile dei contenuti per il Padiglione Italia di Expo 2015: «Matera dice all’Europa che una città può emanciparsi superando la sfiducia e il fatalismo. Inoltre la candidatura vuole dare voce ai luoghi dimenticati ma portatori di un bagaglio etico cui attingere per superare la crisi di senso del continente». La sede del Comitato è proprio fra i Sassi. E di fronte si trova la “casa-grotta” di Unmonastery, la prima esperienza europea promossa da “Matera 2019” che ha fatto arrivare qui dieci “monaci hacker”  (in realtà ingegneri ed esperti) per risolvere con la tecnologia e la creatività le debolezze del capoluogo: dalla gestione dei rifiuti all’impiego delle energie rinnovabili. «Abbiamo declinato in chiave laica lo spirito di san Benedetto », chiarisce la responsabile Rita Orlando. La città scolpita nel tufo non è terra di festival. E ne va orgogliosa. «È un tratto della nostra diversità: non vogliamo omologarci», afferma il sindaco. «Ma non può passare in sordina il suo dinamismo culturale spinto dall’associazionismo », sottolinea il direttore di RadioTre Rai, Marino Sinibaldi, che ogni settembre organizza Materadio. La festa via etere è dedicata alla rilettura di  Dei delitti e delle pene a 250 anni dal capolavoro di Cesare Beccaria.  In piazza del Sedile, vicino al Duomo, il suono di un pianoforte accompagna l’aperitivo. La melodia esce dal conservatorio “Duni”, uno dei più importanti del Sud, con 900 iscritti. «Matera – spiega il giornalista – è lo specchio di quell’Italia minore che è fuori dai grandi circuiti ma che può proporre poli culturali a prescindere dalla geografia. Non solo. Qui, in mezzo a questa bellezza scavata, il presente è in grado di contaminare l’antico senza snaturare per forza l’identità ». Ecco un modello per il Mezzogiorno che cerca la sua strada e non è quella dell’assistenzialismo.
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