giovedì 4 maggio 2017
Il popolare attore romano è stato protagonista al Festival di Lecce: «Un premio alla carriera? Perché, è già finita?» Invece il 9 debutta alla regia con “Ride”: «È un film sul dolore»
L'attore e regista Valerio Mastandrea

L'attore e regista Valerio Mastandrea

COMMENTA E CONDIVIDI

«Un premio alla carriera? Ma che, è già finita?». Sornione, Valerio Mastandrea, ritirando l’Ulivo d’oro all’ultimo Festival del cinema europeo di Lecce, non ha smentito la sua celebre ironia, sfoderando anche una vena di modestia. D’altronde quando di recente gli è stato assegnato il David di Donatello come migliore attore non protagonista per il film Fiore di Claudio Giovannesi lui si è schermito. «Vincere o perdere è comunque un’ingiustizia, penso alla cinquina nella mia categoria: c’erano attori straordinari gente che fa ’sto mestiere da molti anni più di me». L’attore romano sta vivendo un momento d’oro, ma ha deciso di rischiare prima come produttore di Non essere cattivo del regista scomparso Claudio Caligari, e ora con la sua prima regia. Nel film ci sarà anche l’amico e collega Marco Giallini: titolo Ride, primo ciak il 9 maggio nei pressi di Roma.

Mastandrea, lei si sta mettendo in gioco come produttore e come regista. Chi glielo fa fare?

«Lo so che è un rischio, ma lo corro perché questo mestiere ti dà l’opportunità di esprimerti in tante maniere. Non esiste un punto di arrivo per chi fa il mio lavoro: non è un Oscar, non è un superpremio o un superfilm. Il bello e il drammatico del nostro lavoro è quello di inseguire sempre qualcosa che ti soddisfi, una opportunità di cercare sempre, di sperimentare e capire cose nuove, sull’essere umano, sul mondo in cui vivi e in cui vivevi...».

Cosa racconta il suo primo film da regista?

«È un film sul dolore, nel tentativo di trattarlo con una buona dose di ironia che secondo me è una di quelle cose che ci permette di sopportarlo, di elaborarlo e di accettarlo. Ci sono una protagonista di 30 anni, un bambino di 10 anni e un grande vecchio. Generazioni a confronto sul tema dell’elaborazione del lutto: solo che in questa storia c’è una attenzione pubblica a questa morte che impedisce ai nostri di entrare in contatto intimamente con quanto è successo».

Un tema forte al centro di una commedia?

«Il mio amico Paolo Virzì ha letto il film e mi ha scritto: è triste, ma fa molto ride- re. E io ho risposto: come me».

Marco Bellocchio ha detto di averla scelta per Fai bei sogni dal libro di Gramellini proprio per questo...

«Io non sono uno triste. Mi sono addestrato da solo a farmi vedere così. Nella realtà sono molto meno ironico e molto meno triste. Ma “triste e ironico” è il binomio perfetto per non deludere nessuno. Forse. Forse ci arriverò da vecchio a capì ste cose...».

E invece da piccolo come era? «Mia mamma mi ha avuto a 19 anni ed è sempre stata una grande lavoratrice. Sono cresciuto in una famiglia imperfetta, non parlo di mancanza d’amore, ma di confusione di ruoli. Era l’anno zero del nuovo concetto di famiglia, i miei si erano separati molto giovani, c’erano i nonni che ti tiravano su, l’autorità era della nonna più che della madre. Comunque mia madre ha 65 anni e il problema è che non invecchia lei, invecchio io...».

Lei ha un figlio di 7 anni. Che padre è?

«Oggi anche io ho una famiglia, anche se è una famiglia spezzata. Forse geneticamente la mia generazione è quella che oggi può amare i propri figli in maniera diversa e contemporanea. Voler bene è una delle cose più difficili e più facili da fare. Ma l’amore è fatto di intensità, non dipende dalla quantità di tempo che si passa insieme».

Lei che tipo di italiano ha sentito di rappresentare coi suoi personaggi in tutti questi anni?

«C’è stato l’inizio della mia carriera in cui ero sempre il ragazzetto di periferia, poi ero il piccolo borghese che faceva fatica a essere se stesso, poi ero quello che essendo se stesso subiva tutto il contesto... Adesso mi chiamano per fare il padre. Finché nun me chiamano per un ruolo di nonno, vuol dire che va ancora bene».

Come regista cosa vuole raccontare?

«Credo che il nostro Paese sia la culla della diversità, non solo territoriali, e nell’epoca in cui viviamo iniziano a vedersi, purtroppo, delle disparità sociali che sono una fucina di idee, di storie, di temi. Io certe storie le ho sempre raccontare da attore, adesso come regista proverò a esprimere un punto di vista personale».

Cosa ha imparato dai registi con cui ha lavorato?

«Tutti i registi mi hanno insegnato. Anche i film che ho sbagliato, quelli in cui ho dato meno sono stati fondamentali: sono come le partite sbagliate, non si può vincere sempre. Poi ci sono quei registi con cui si diventa amici... ( in quel momento nella hall dell’hotel di Lecce in cui lo incontriamo entra Ferzan Ozpetek che parla a voce alta e Mastandrea comincia a gridare ridendo: “Aho, ma la smetti, ma la pianti, sto facendo un’intervista con un giornale serio: scusa puoi parlare sotto voce?”. Poi i due si abbracciano). Alcuni registi diventano purtroppo persone a cui vuoi bene...».

E il teatro? Lei ha appena terminato la tournée de Il migliore di Mattia Torre.

«Era una storia cinica, che faceva molto ridere. Col teatro ho un rapporto di amore e odio. A me piace molto, lo paragono a un concerto dal vivo. Ma è tostissima cercare la stessa forza ed entusiasmo tutte le sere. In questo non mi ritengo un attore vero purtroppo, sono abbastanza istintivo. La vera attrice di famiglia era mia nonna: io Beckett l’ho conosciuto vedendolo recitare da lei al dopolavoro. Poi con Rugantino di Garinei e Giovannini ho imparato cosa significa questo mestiere. L’ho fatto in tutte le condizioni, dovevi sempre esserci, una grande scuola».

Lei nasce però come personaggio televisivo.

«Perdo l’anonimato con il Costanzo show. Avevo 19 anni, lo rifarei ancora. Ero al primo anno di Lingue all’Università. Per presentarmi mandai a Costanzo un dialogo in cui descrivevo la mia estate di formazione, di passaggi, di crescita. Venni accolto e cullato come uno di famiglia: a livello personale, fu un’esperienza fondamentale. Adesso posso dire che avevo molta voglia di apparire, all’epoca non l’avrei mai ammesso. C’erano tanta timidezza e tanto egocentrismo».

Adesso si lancia anche nella serialità tv.

«Sinora ho girato solo due film tv, la serialità l’ho fatta solo adesso con Mattia Torre, già sceneggiatore di Boris. La linea verticale andrà sulla Rai e la dovete assolutamente vedere perché ha uno sguardo su un tema molto forte e abusato, ma originale». Mastandrea non vuole svelare la trama, ma la fiction pare sia la storia di un malato che affronta con coraggio, umanità e ironia tutte le conseguenze della sua patologia e del suo iter ospedaliero in un reparto di oncologia; nel cast anche Giorgio Tirabassi.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: