lunedì 15 aprile 2024
«Inutile imbastire processi al passato, occorre il realismo visionario del vangelo. Fare cultura non è replicare il magistero ma dissodarne i presupposti»
Sergio Massironi

Sergio Massironi - archivio

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Prosegue il confronto avviato da “Avvenire” sul ruolo dei cattolici nella cultura italiana dei nostri giorni. Sul sito di Avvenire sono disponibili i precedenti contributi di Sequeri, Righetto, Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi e Lorizio.

L’attenzione ricevuta dall’interrogativo su cattolicesimo e cultura che Roberto Righetto e Pierangelo Sequeri hanno riaperto sulle colonne di “Avvenire” non deve sorprendere, ma almeno rallegrare. Se il vaticanista Faggioli ha subito rilevato la tipicità italiana di questo interesse, ciò impegna le Chiese del nostro Paese a cogliere la possibile specificità del proprio ruolo storico e a non mancare ulteriori, troppi appuntamenti coi segni dei tempi. Non occorre, infatti, sentirsi il centro del mondo, per riconoscere che anche il nuovo scenario multipolare, frantumato, conflittuale lega l’Italia a una particolare qualità della vita. Si chiama cultura una tale sintesi, il cui sapore è generalmente distinto più facilmente da un palato esterno: l’amarezza interna a ogni comunità rischia infatti di condizionare un giusto sentire, che si riguadagna nell’incontro e negli scambi. Cattolicesimo e cultura, dunque, in un’Italia che non voglia diventare per il resto del mondo un paese dei balocchi, meta di un turismo senza coscienza e terra di un popolo senza memoria e senza visioni. Si può intuire che, così posta, la questione divenga presto europea, si allarghi cioè a interrogativo sul ruolo futuro di quel contributo che nel Bel Paese ha storicamente avuto un’elaborazione ad alta intensità.

Non bisogna più nascondersi che il tema ha diviso i cattolici italiani, almeno negli ultimi quarant’anni. Come intendere il rapporto tra cattolicesimo e cultura non è dunque un interesse innocente, ma il campo di battaglia su cui ci si è fatti molto male, ci si è delegittimati a vicenda, si è indebolita l’ossatura del cattolicesimo nel nostro Paese, rinunciando a esplicitare e a far interagire i presupposti di posizioni incompatibili. Il magistero e i pastori hanno acuito generalmente lo scontro, faticando a immaginare e a promuovere un’unità plurale, dialettica, propensa a ospitare la divergenza come espressione dello Spirito. Cultura – nella sua affinità etimologica a coltura – rinvia a un’esperienza collettiva di fertilità, proprio quella che non solo l’inverno demografico, ma l’impoverimento del dibattito pubblico e delle appartenenze comunitarie ci dicono essersi smarrita. Il cattolicesimo può irrigare ancora il paesaggio italiano non per il vigore delle sue strutture – per la verità in larga misura decadenti – ma per la sorgente che custodisce, inesauribilmente viva e gratuitamente accessibile: a pochi, a molti, a tutti. Il fatto che ci si ponga oggi la questione, dunque, non chiede sia imbastito un processo al passato. Se ne uscirebbe distrutti, come troppo spesso dalla macchina della giustizia umana. Al contrario, con l’onestà che conosce l’autocritica, si può tornare alla sorgente evangelica con un realismo un po’ visionario.

Il dono più grande che il primo Papa venuto da un altro emisfero ha fatto al Paese da cui emigrarono i suoi avi – una vera e propria forma di restituzione – è il riscatto della categoria di cultura. Noi Europei l’avevamo incartapecorita, quasi musealizzata. Si pensi alla fatica della scuola italiana – anche cattolica – nel rivelare agli adolescenti la vertiginosa attualità degli studi umanistici, anche in vista di un pensiero tecnico e scientifico aperto e all’altezza delle nuove sfide. Umanesimo: ecco la parola che Francesco, già nel 2015 a Firenze, sotto la cupola del Brunelleschi, piegò a un nuovo rapporto con la cultura. Era già tutto scritto, dal 2013, in Evangelii gaudium. Lo è ancora. L’urto, però – il cardinale Angelo Scola parlò di un benefico “pugno nello stomaco” da papa Francesco al cattolicesimo europeo – è ancora da smaltire. Infrange – il dono che le Chiese del Sud globale e in particolare quella latino-americana fanno alla nostra tradizione – l’irrigidimento delle forme. Eppure, è il nostro popolo – pur così tradizionalista, a volte – a rivelarci l’esaurimento di interesse per le forme vuote. Lo fa con l’abbandono collettivo di ciò che, semplicemente ripetuto, non procura vita. Lo dice con la frattura – femminile, giovanile, adulta – tra le cose della vita e quelle della Chiesa. Dell’Umanesimo quattrocentesco abbiamo dimenticato la vitalità, il pluralismo, l’audacia nell’elaborazione di soluzioni nuove. La Chiesa ne fu parte, ma lasciandosene portare e mai assumendone la regia: ispiratrice e insieme ispirata. Presa a imparare.

«È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città», ha scritto Francesco. Precisando: «Non bisogna dimenticare che la città è un ambito multiculturale. Nelle grandi città si può osservare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali, in città invisibili». Il cristianesimo ha sin dal primo secolo accettato questa sfida di non ricevere la realtà, le città, come una pagina bianca. Il grande equivoco che ha reso sterili troppi gesti ecclesiali e progetti culturali è immaginare possa esistere una “cultura cattolica”. La postura antimodernista ci ha imbrigliati per un secolo nel tradimento dell’attitudine missionaria per eccellenza, quella all’inculturazione. Tomáš Halík, fra gli altri, ha perfettamente descritto il fenomeno di esculturazione del cattolicesimo che ha disinnescato il pensiero, il dibattito, la libera ricerca, riducendo la parola ecclesiale a disturbo. Tale finzione contro-culturale è rinuncia a quel reale esercizio profetico che, ad esempio, le encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti riattivano, cogliendo snodi del nostro tempo con cui l’umanità è alle prese e che il vangelo può trasformare da deserto in giardino. Fare cultura non sarà mai semplicemente replicare il magistero o farsene megafoni. Al contrario, anticiparlo e dissodarne i presupposti, sul terreno della cultura popolare, che è quella secolare, nell’Italia e nell’Europa contemporanee: sistemi aperti, in continuo interscambio con mondi altri, nei quali il Risorto ancora ci precede.​

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