venerdì 25 agosto 2017
Il grande attore italiano, impegnato al Meeting con uno spettacolo di Otello Cenci sulla paternità nella Bibbia, racconta il suo essere «padre mancato per paura»
Massimo Popolizio in "Visita al padre" di Roland Schimmelpfennig (Piccolo Teatro - Milano)

Massimo Popolizio in "Visita al padre" di Roland Schimmelpfennig (Piccolo Teatro - Milano)

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«Non sono stato padre per paura». Di solito, devi rileggere due o tre volte, se non di più, le risposte di un’intervista per trovare il motore immobile del ragionamento, da cui partire e dove tornare, se vuoi svelare il personaggio e l’uomo. Con Massimo Popolizio non vai oltre la prima frase. Tutto inizia e finisce lì, da quel figlio mai nato, a causa di una “paura” serenamente confessata da un uomo cui il cinema ha cucito addosso i panni del “forte”. Tutt’intorno a quella paura si dipanano cinquantasei anni di vita e teatro, Luca Ronconi e Paolo Sorrentino. Fino a Padre e Figlio, l’ultima performance di uno dei più importanti attori del nostro tempo al Meeting di Rimini.

Cosa pensava, mercoledì sera, mentre faceva rivivere Caino e Abele, Abramo e Isacco, Giacobbe ed Esaù?

«Ho pensato inevitabilmente al figlio che sono stato e al figlio che non ho avuto. La cosa strana, forse curiosa – ma non casuale – è che sovente ho a che fare con questa tematica sul lavoro. Interpreto figli con problemi, o padri con problemi, e andando a indagare i rapporti di famigliari nel modo più viscerale, talvolta non piacevole, il pensiero corre. I tratti che emergono da Il prezzo di Miller o dalla Visita al padre di Roland Schimmelpfennig, che ho interpretato tre anni fa al Piccolo, piuttosto che dalla trilogia della Lehman di Stefano Massini, messa in scena da Ronconi, fanno tornare a galla aspetti della vita che ti riguardano. E che avevi dimenticato perché non ti piacevano».

Un copione può costringere l’artista a interrogarsi sulla propria esistenza?

«In questi trentacinque anni di collaborazione con tantissimi grandi attori, ho percepito che la visione del lavoro cambia in relazione alla vita che fai e a cosa la vita ti dà. E ho capito che con la vita fai sempre i conti».

Fa i conti spesso con il figlio che non c’è?

«Interpretare opere come quella di Miller o recitare brani come quelli biblici che Otello Cenci ha messo in scena al Meeting mi coinvolge molto, anche e proprio perché non sono padre. Personalmente, non ho avuto il coraggio di diventare padre e il mio essere figlio non è stato sufficiente a vincere questa paura».

Si può essere padre anche senza un legame biologico con il figlio?

«Non riesco a considerare sullo stesso piano la paternità biologica e quella adottiva, ma esiste una paternità artistica. I padri che nella vita hai la fortuna di incontrare quelli cioè che in qualche modo segnano la tua vita, com’è avvenuto nel mio caso con Luca Ronconi, te li porti addosso per la vita intera».

Ronconi era un “padre” severo?

«Con lui il rapporto era do ut des, ti dovevi sempre guadagnare tutto. Fa male ed è la ragione per cui io cerco di essere più comprensivo. Vorrei ricordare però che esiste una sottile differenza tra padre e maestro: non bisogna scambiare un maestro per padre, come rischiava di succedere con Ronconi. Io avrei voluto che mio padre biologico fosse come il maestro che avevo: questo non poteva avvenire, ma la mia incapacità di capirlo è durata per diversi anni».

Lei è stato un buon figlio?

«Trattavo molto male mio padre. Vedevo le sue difficoltà, anche perchè lui teatralizzava molto il suo dolore, e da figlio ne soffrivo: volevo assolutamente che si tirasse fuori dalla depressione; quando ho avuto gli stessi problemi ho capito di essere stato un figlio insufficiente, quanto meno nel comprendere le difficoltà di mio padre».

Cos’è rimasto di quella 'teatralità' del dolore di suo padre?

«Mia sorella dice “in scena sembri papà”; è curioso che con il passare degli anni assomigliamo di più ai nostri genitori. Ritornare vicino a mio padre quando sono sul palcoscenico me lo fa sentire vicino, soprattutto nelle sue fragilità».

Cosa sarebbe cambiato se avesse avuto un figlio?

«Innanzi tutto sarebbe durato il mio matrimonio. Ho sempre avuto delle fidanzate e una moglie che volevano un figlio, però l’avrei fatto per far felice una donna e quindi non sarebbe stato un atto responsabile, anche se non non riesco a vederlo neanche come un atto eventualmente negativo. Dev’essere un atto d’amore, devi sapere che rinuncerai a tanto di te per qualcun altro».

Una rinuncia troppo grande per Massimo Popolizio?

«Ci vuole coraggio e io non ero preparato all’evento, o forse ci ho pensato troppo, ingigantendo la situazione. Ma se fosse arrivato, l’avrei tenuto».

Ha sostituito il figlio che non ha avuto?

«Non sono riuscito a sostituirlo né con figli adottivi né artistici. Anzi, quando mi rendo conto che potrebbe nascere questa paternità artistica sono io a interromperla. Comunque sì, mi è rimasto un vuoto».

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