venerdì 13 febbraio 2009
Gli inferi non sono un luogo vuoto, sono una «possibilità tragica e necessaria» che comporta l’«esclusione eterna dal dialogo con l’amore divino». I «novissimi» riletti dall’arcivescovo emerito di Milano.
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Il Dio che ha fatto suoi il tempo e la morte, ha dato a noi la sua vita, nel tempo e per l’eternità. La Pasqua del Signore rivela la solidarietà del Dio vivente alla no­stra condizione di abitatori del tempo, e insieme ci dà la garanzia di essere chiamati a divenire gli a­bitatori dell’eternità. Nella risur­rezione di Cristo ci è promessa la vita, così come nella sua morte ci era assicurata la vicinanza fedele di Dio al dolore e alla morte. La Pasqua è l’evento divino nel qua­le ci è rivelata e promessa la de­stinazione del tempo al suo felice compimento nella comunione in Dio. Lo spazio temporale che sta tra l’a­scensione e il ritorno di Cristo nel­la gloria appare così come un e­stendersi del mistero pasquale al­l’intera vicenda umana: nella sof­ferenza e nella morte, che ancora caratterizzano la nostra storia, si fa presente la sofferenza della cro­ce, perché la vita del Risorto sia pregustata da chi con Cristo per­corre il suo esodo pasquale. L’in­tera vita del cristiano è un pelle­grinaggio di morte e risurrezione continua, vissute con Cristo e in Cristo nello Spirito, portando an­zi Cristo in noi, « speranza della gloria». Vigilare è accettare il continuo morire e risorgere quale legge del­la vita cristiana; le condizioni del­la vigilanza evangelica non sono dunque la stasi o la nostalgia, ben­sì la perenne novità di vita e l’al­leanza celebrata sempre nuova­mente col Signore Gesù che è ve­nuto e che viene. Nella luce dell’evento pa­squale si coglie allora il pieno significato cristiano della morte fisica, ultima vicenda visibile della no­stra esistenza. La morte è evento pasquale, segnato contemporaneamente dall’abbandono e dalla co­munione col Crocifisso ri­sorto. Come Gesù abban­donato sulla croce, ogni morente sperimenta la solitudine dell’istante supremo e la lacera­zione dolorosa; si muore soli! Tut­tavia, come Gesù, chi muore in Dio si sa accolto dalle braccia del Padre che, nello Spirito, colma l’a­bisso della distanza e fa nascere l’eterna comunione della vita. Per­ciò, per la grande tradizione cri­stiana la morte è dies natalis, gior­no della nascita in Dio, dell’usci­re dal grembo oscuro della Trinità creatrice e redentrice per con­templare svelatamente il volto di Dio, in unione col Figlio, nel vin­colo dello Spirito Santo. Tutto ciò che segue alla mor­te viene letto dalla fede nel­la luce dell’evento pasquale di Gesù. Il giudizio è l’incontro con lui che raggiunge la persona col suo sguardo penetrante e creato­re e la porta alla piena conoscen­za della verità su se stessa davan­ti all’eterna verità di Dio. La sua vigilante anticipazione avviene nel confronto della coscienza con la Parola, nella celebrazione del sacramento, in particolare della ri­conciliazione, nell’incontro con il fratello bisognoso di aiuto. L’inferno è la condizione insop­portabilmente dolorosa della se­parazione da Cristo, dell’esclusio­ne eterna dal dialogo dell’amore divino; possibilità tragica e però necessaria se si vuol prendere sul serio la libertà che Dio ha dato al­l’uomo di accettarlo o di rifiutar­lo. L’inferno, in quanto possibilità radicale, evidenzia la dignità su­prema della vita umana, il valore sommo della vigilanza e la tragi­cità del male; proprio per questo e in tutto questo evidenzia l’amo­re del Dio che, creandoci senza di noi, non ci salverà senza di noi. E­gli, infatti, che ci ha amati quan­do ancora eravamo peccatori, ri­marrà separato da noi solo se noi ci ostineremo nell’essere separati da lui. Il purgatorio è lo spazio della vigi­lanza esteso misericordiosamen­te e misteriosamente al tempo do­po la morte; è un partecipare alla passione di Cristo per l’ultima pu­rificazione che consentirà di en­trare con lui nella gloria. La fede nel Dio che ha fatto sua la nostra storia è il vero fondamento del cre­dere a una storia ancora possibile al di là della morte, per chi non è cresciuto quanto avrebbe potuto e dovuto nella conoscenza di Ge­sù. L’anticipazione di tale spazio è il tempo dedicato alla cura della finezza dello spirito che si nutre di sobrietà, distacco, onestà intel­lettuale, frequenti esami di co­scienza, trasparenza del cuore, u­nificazione della vita sotto la regia della sapienza evangelica: come pure dell’ascesi e della purifica­zione necessarie per fortificarci nella tentazione, scioglierci dall’i­nerzia delle nostre colpe e libe­rarci dall’opacità delle nostre abi­tudini cattive. Il paradiso è l’essere eternamente col Signore, nella beatitudine del­l’amore senza fine: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). La pa­rola del Crocifisso al ladrone pen­tito è la rivelazione di ciò che il pa­radiso è: un « essere con Cristo » , un vivere eternamente in lui il dia­logo dell’amore col Padre nello Spirito Santo. Questa relazione con il Signore, di una ricchezza per noi inimmaginabile, è il principio essenziale, il fondamento stesso di ogni beatitudine dell’esistere. La vigilanza si esercita nell’antici­pazione della gioia dell’incontro con il Signore e nella letizia della comunione fraterna vissuta con tutti coloro che ne condividono il desiderio. La figura di tale anticipazione è così profonda e delicata da farci comprendere l’importanza della vita contemplativa, pur se la so­stanza dell’anticipazione appar­tiene a ogni vita di fede, sollecita­ta a diventare esperienza vissuta nella confidenza con il Signore e nella fiducia della sua tenera cu­ra. La spiritualità del Cantico dei cantici – lo insegna una tradizio­ne spirituale costante e sempre rinnovata del cristianesimo – è dunque una dimensione vitale della nostra relazione quotidiana con Dio; è il tempo dell’innamo­ramento, destinato a consumarsi nell’esuberanza dell’amore, da coltivare, custodire, impreziosire nell’intimità di un dialogo che rag­giunge le fibre più sensibili del no­stro essere. Infine, nella luce della risurre­zione di Gesù possiamo intui­re qualcosa di ciò che sarà la risurrezione della carne. In essa l’essere con Cristo si estenderà ad abbracciare la pienezza della per­sona e la globalità dell’esperienza umana anche nella sua dimensio­ne corporea, così come la risurre­zione del Crocifisso nella carne ha portato nella vita eterna la carne del nostro tempo mortale, fatta propria dal Figlio di Dio. L’antici­pazione vigilante della risurrezio­ne finale è in ogni bellezza, in o­gni letizia, in ogni profondità del­la gioia che raggiunge anche il cor­po e le cose, condotte alla loro de­stinazione propria, che è quella delle opere dell’amore. Non dobbiamo dimenticare che il cristianesimo, con alterne vicen­de, ha condotto una dura batta­glia per respingere l’impulso al di­sprezzo del corpo e della materia in favore di una malintesa esalta­zione dell’anima e dello spirito. L’esaltazione dello spirito nel di­sprezzo del corpo, come l’esalta­zione del corpo nel disprezzo del­lo spirito, sono di fatto il seme ma­ligno di una divisione dell’uomo che la grazia incoraggia a com­battere e a sconfiggere. La vigi­lanza consiste nell’esercizio quo­tidiano dei sensi spirituali, ossia degli stessi sentimenti che furono di Gesù, nella coltivazione della sapienza evangelica che unifica l’esperienza e ci consente di ap­prezzare i legami fini e profondi del corpo con lo spirito. In tal mo­do possiamo custodire fin d’ora, in attesa che si compia la pro­messa della risurrezione della car­ne, il piacere della libertà del cor­po da tutto ciò che è falso e ottu­so, laido e volgare, avido e violen­to. La fede nella risurrezione finale ci aiuta quindi a valorizzare e ama­re il tempo presente e la terra. La vigilanza cristiana, illuminata dal­l’orizzonte ultimo, non è fuga dal mondo, bensì capacità di vivere la fedeltà alla terra e al tempo pre­sente nella fedeltà al cielo e al mondo che deve venire. Nella lu­ce della Pasqua, i novissimi – mor­te, giudizio, inferno, purgatorio, paradiso e risurrezione finale del­la carne – sono tutte forme del­l’essere con Cristo, che è promes­so e donato all’abitatore del tem­po e si configura a seconda del rapporto che, nella vigilanza o nel rifiuto, si stabilisce tra ogni perso­na umana e il Signore Gesù. L’inferno secondo il celebre affresco di Luca Signorelli in una cappella del Duomo di Orvieto
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