giovedì 5 marzo 2020
A colloquio con la regista belga che ha mandato in sala il suo primo "piccolo gioiello" cinematografico in cui attraverso le vicende di una giovane gitana scava fra le pieghe dell'universo femminile
Un fotogramma del film "Sola al mio matrimonio" della regista Marta Bergman

Un fotogramma del film "Sola al mio matrimonio" della regista Marta Bergman

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Nella solitudine tutto diventa più chiaro e l’amore, quello autentico, desidera trovare la sua condizione di verità e libertà. Mentre molti registi sono costretti a rinviare l’uscita dei loro film a causa dei cinema chiusi, arriva in sala, grazie a Cineclub Internazionale, un piccolo gioiellino, un esordio d’autore, Sola al mio matrimonio diretto da Marta Bergman. In realtà è il primo lungometraggio di finzione per la regista belga che ha già diretto vari documentari tra cui Un jour mon prince viendra, “Un giorno il mio principe verrà” che racconta la condizione femminile nella comunità rom. E proprio partendo da questo ultimo lavoro, Marta Bergman costruisce una storia: Pamela (Alina Serban) è una ragazza madre che non ama la sua vita, la casa stretta, i giudizi della sua gente, non ha soldi per vivere e vuole un uomo. Nel suo percorso non ha trovato un compagno capace di renderla felice e di liberarla dai pesi della ristrettezza economica. Allora indossa un vestito, quello di sua madre che non c’è più, per essere adeguata alle richieste di un’agenzia matrimoniale. E si imbatte in Bruno, un uomo belga, disposto a conoscerla e, un giorno a sposarla. Abbandona tutti di nascosto, la nonna cantante e la figlia di pochi anni, e va vivere in Belgio. Questo piccolo grande film inizia a scavare nelle pieghe della condizione rom ma, piano piano, allarga il suo punto di vista all’universo femminile. Pamela appartiene alla comunità zingara, ma è anche una donna reietta e ultima che aspira a una vita diversa, forse migliore, a un amore che potrebbe essere in grado di custodire e non imporre. Più che un film sull’amore, Sola al mio matrimonio (nelle sale da oggi) è un film sulla libertà, su quel desiderio che crea l’identità di ogni uomo e ogni donna.

Marta Bergman, come è nata la scelta del titolo?

Quando pensavo alla vita che avrebbe voluto condurre Pamela la protagonista, ho capito che il primo sentimento da trasmettere era quello della tristezza generata da una disperata solitudine. Pamela non è una ragazza come tutte le altre: cerca la felicità fuori dal suo villaggio rumeno. Il titolo, che prende spunto da una canzone del repertorio professionale di sua nonna, ha a che fare con la ricerca autentica della felicità. Quella che si trova in un posto ben specifico, non in quello tradizionalmente sicuro.

Sola al mio matrimonio è un film ricco di chiaroscuri. La comunità rom, con le sue convinzioni e convenzioni, sembra avere un’influenza negativa sul futuro di Pamela.

La scelta di andare in Belgio per sposare l’uomo che potrebbe garantirle un benessere migliore è una scelta molto tradizionale nella comunità rom. Non voglio generalizzare ma all’interno di questa comunità quella specifica unione matrimoniale è considerata un destino ineluttabile per una donna. Dopo aver diretto Un jour mon prince viendra volevo girare una storia in cui la convenzione matrimoniale non rappresentava l’unica possibilità di riscatto. Pamela diventa un’eroina perché riesce a non farsi determinare dalle convenzioni, ma andare contro quelle tradizioni che non sono adatte a costruire il suo futuro.

Nel film ogni evento sembra essere costruito per creare una crescente sorpresa e attesa.

Non volevo che la storia fosse ineluttabile come ineluttabile è a volte la vita delle giovani rom. La quotidianità, anche quando è programmata, è casuale e spontanea. Per questo durante le riprese abbiamo creato una messa in scena “scomoda” e imprecisa. Sul set c’era tanta gente, ma soprattutto abbiamo lavorato sulle emozioni che la presenza della bambina, la figlia di Pamela, inevitabilmente scatenava.

I suoi personaggi hanno molte sfaccettature emozionali.

Nel casting ho puntato a una scelta attoriale dove le fragilità di ogni singolo personaggio fossero ben mostrate: Bruno è interpretato da Tom Vermeir, un attore che apparentemente non ha fragilità, inquietudini e tristezze. La scelta di Alina Serban per Pamela è stata decisiva perché il suo personaggio doveva trasmettere tante marginalizzazioni in quanto è una donna, ragazza madre e senza educazione scolastica. Le donne nel mio film non corrispondono a prototipi e convenzioni.

La storia viene portata avanti anche da personaggi maschili che, apparentemente, non creano una dimensione supportiva per la donna, tranne quella del ragazzo Marian, che, nell’assenza di Pamela, prende in custodia sua figlia.

Marian è, come la protagonista, un personaggio marginalizzato. Non segue l’impulso di subire le scelte della comunità, e diventa perciò più responsabile e molto intuitivo.

Infine Pamela, nei momenti difficili, fa conoscere, attraverso la preghiera, una dimensione spirituale, quasi ingenua della fede in Dio.

Non voglio correre il rischio di generalizzare le tradizioni dei rom, ma all’interno di questa comunità esiste una forte credenza, che non chiamo precisamente fede, che nutre un profondo rispetto della ritualità nelle regole. Anche per la fede di Pamela ho voluto che la sua preghiera nascesse in un momento di disperazione molto spontaneo.

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