giovedì 25 giugno 2015
​Riapre rinnovato a tremila metri del ghiacciaio il museo dedicato a una delle pagine più curente dalla prima guerra mondiale.
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La Marmolada, regina delle Dolomiti (col suo ghiacciaio tocca quasi i 3300 metri) «custodisce, nelle caverne e nelle gallerie, l’eco dei lamenti e delle imprecazioni, delle preghiere e delle speranze degli uomini che, sottratti alle loro famiglie e ai loro affetti più cari furono mandati lassù a fare la guerra...». Così Mario Bartoli, il fondatore del museo più alto d’Europa, spiegava la sua opera dedicata alla memoria dei vissuti della prima guerra mondiale. A 25 anni di distanza, quel museo è stato completamente rinnovato, dalla società «Funivie Marmolada»: per significare che la guerra, se è comunque una carneficina, lo è di più a quote così alte, lungo le trincee scavate nel ghiaccio. Una doppia guerra, dunque. La nuova sede sarà aperta sabato prossimo, a punta Serauta: ristrutturata in modo radicale, sarà interattiva, con meno testimonianze della struttura precedente, ma con 'reliquie' quasi parlanti di quei tragici anni sul fronte, tali da permettere al visitatore di rivivere, anche sulla propria pelle la trincea di ghiaccio.  Il ghiacciaio si è quasi dimezzato da allora e di anno in anno, là dove si ritira, restituisce gavette, pezzi di divisa, ferri chirurgici, fili di reticolato, tavole in quantità. Da quella parte della montagna c’era l’esercito del Regno d’Italia, da quest’altra le armate dell’Impero Austro-Ungarico. Più di 15 mila i morti sul fronte dolomitico. Morti di gelo, più che di arma da fuoco. Il primo museo, di Bartoli, appunto, e quello nuovo (allestito dall’architetto Claudine Holstein di G22 Projects Srl) sono stati concepiti come una testimonianza della follia della guerra. La follia, appunto: basta dare un’occhiata dall’ampio finestrone di punta Serauta, tappa intermedia della lunga funivia, alla 'città di ghiaccio' che sta là in fondo. L’ultima neve non permette di vedere i resti delle baracche del villaggio che gli austro-ungarici costruirono nelle viscere del ghiacciaio. Ma le sale del museo ne danno realistica rappresentazione.  Ben 10 chilometri di fortificazioni, su e giù lungo i crinali di roccia, tra Forcella Vu e Punta Rocca, saltando fra un crepaccio e l’altro, il tutto coperto da metri di ghiaccio. Un progetto del tenente Leo Handll, che era ingegnere. C’era di tutto dentro quelle viscere; davvero scorreva la vita: dalle trincee ai dormitori, dalle cucine ai forni, persino una cappella dove celebrava il cappellano, padre Matschik. «…ci venne l’idea di lavorare il ghiacciaio come se si trattasse di una varietà di roccia tenera, cercando di collegare tutte le postazioni per mezzo di tunnel scavati a grande profondità rispetto alla superficie. Per noi era una questione di vita o di morte »: così Leo Handl (tratto da La Città di Ghiaccio, A. De Bernardin, M. Wachtler).  L’area espositiva del nuovo museo, di circa 300 metri quadri, è costituita da 12 ambienti diversi con 800 reperti, fotografie originali, armi italiane e tedesche, divise, munizioni, oggetti d’uso quotidiano. Il visitatore viene condotto fra stralci di diario, vetrine tematiche, e contenuti multimediali nell’interiorità dei soldati e nella loro vita in questa 'città'. Fino quasi a riviverla, senz’altro a commuoversi. La guerra porta morte e ferite, lo si sa. Ma sulle vette non sono soltanto i cannoni e mitragliatrici a mietere vittime, anche il gelo fino a 30 gradi sotto zero, le slavine, i fulmini. Gli incidenti a ripetizione. E 100 anni fa non c’era l’elisoccorso per i feriti, come lo è oggi per i tanti, troppi alpinisti che s’infortunano salendo le pareti strapiombanti della Marmolada Sud.  «La cruda dimostrazione della vita del combattente in alta montagna, mostrata in questo museo, vuol essere una esortazione alla pace e all’amicizia tra i popoli» è il messaggio che la società funiviaria (che vi ha investito un milione e 200 mila euro) vuol lasciare con queste testimonianza. Lassù a punta Serauta si arriva appunto in funivia, oppure a piedi, arrampicando. Più sopra, ai 3265 metri di Punta Rocca, salì nel 1979 anche papa Giovanni Paolo II, per pregare per le vittime di entrambi i fronti. «Si combatteva e si moriva lassù, non con odio, ma con profonda pena nel cuore, ha raccontato un testimone, Fedele Bernard. Da una parte c’erano i valligiani della val di Fassa, dall’altra parte i rudi montanari della val Cordevole, gente con cui, in tempo di pace, si era arrampicato insieme». Le contraddizioni di quell’inutile strage, raccontate, appunto, dal museo più alto d’Europa.
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