sabato 1 aprile 2023
L'architetto ticinese compie oggi ottant’anni: «La sfida è trovare ogni volta un’idea portante che giustifichi la ragione del sostituire alla terra l’opera dell’uomo».
L'architetto Mario Botta

L'architetto Mario Botta - Nicola Gnesi

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Le architetture di Mario Botta e il suo progettare, nell’arco di sei decadi, hanno una potenza simbolica che trova la sorgente nella capacità di dare espressione all’umano tutto intero: corpo e anima, anima e corpo. Ecco perché l’architetto ticinese disegna con la luce, alla continua ricerca di una sintesi tra utilità e bellezza. Forme e materiali rimandano a questo nostro essere capaci di abitare un luogo, di plasmarlo con la nostra vita, di farlo casa, chiesa, lavoro e insieme di aprire orizzonti per un cammino che non conosce fine, per una sete sempre inappagata, nel segno di quell’Infinito che è in noi e oltre noi. Mario Botta compie oggi le sue prime 80 primavere.

Può raccontarci della sua famiglia d’origine e degli studi?

«Sono nato in una modesta casa contadina di Genestrerio, piccolo villaggio del Canton Ticino. Ero l’ultimo di tre fratelli e, come spesso accade, essere il più piccolo faceva di me anche il più coccolato. Sulla mia crescita ha dominato soprattutto la presenza delle donne (mia madre, la nonna materna, le zie). Mio padre ha lasciato la famiglia quando avevo solo sette anni. Non mi piaceva andare a scuola perché non trovavo motivazioni e allora scelsi l’istituto di disegnatore edile. Poi decisi di continuare gli studi dapprima al liceo artistico di Milano e poi a Venezia alla facoltà di Architettura».

Quale era il suo sogno di bambino?

«Fin da piccolo, ho sempre avuto una grande passione per il disegno. Ero di costituzione fragile perché nato prematuro ed essendo cagionevole di salute mia madre sviluppò un atteggiamento protettivo, indirizzandomi verso giochi tranquilli: forse da qui l’amore per il disegno. Poi arrivarono a casa, non ricordo come, i "Maestri del colore": piccole monografie divulgative e la mia prediletta era quella dedicata a Modigliani. Fu una scoperta che accese in me la passione per il mondo dell’arte».

Come nasce la sua vocazione di architetto?

«Vedendo, nello studio dove ero approdato come apprendista edile, che una linea tracciata su un foglio poteva diventare un muro costruito. A partire da quel momento tutto mi è sembrato facile, anche se impegnativo, e questo mi ha portato ad abbracciare il mestiere di architetto».

Qual è il rapporto tra i suoi studi d’arte e l’architettura?

«Ho sempre interpretato l’architettura come una forma d’arte: quella che trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura».

Perché ha scelto Venezia per i suoi studi universitari?

«Sono giunto a Venezia per Venezia. È la città che più di ogni altra testimonia una forma urbana definita, un tessuto compatto, un organismo unitario. L’aver scelto Venezia per completare la mia formazione di architetto mi ha permesso di prendere parte a una stagione straordinaria, entrando in contatto con un gruppo affiatato di intellettuali e artisti che erano soprattutto degli umanisti e tra loro Carlo Scarpa, che è stato mio relatore di laurea».

Come è strutturato il suo studio?

«Il mio è lo studio di un artigiano che si occupa dell’arte del costruire. Lo studio, creato subito dopo la laurea, nel 1970, si è via via consolidato per poi, nel tempo, ritornare a una dimensione domestica e familiare».

La famiglia ha un ruolo importante non solo nella sua vita ma anche nel suo lavoro: i tre figli architetti lavorano con lei, sua moglie Maria le è sempre accanto nei tanti viaggi... Qual è il segreto di questa armonia e continuità tra vita, famiglia e lavoro?

«Non conosco alternative. Mi sembra di recuperare la dimensione arcaica della bottega artigiana con il lavoro che era il motore stesso del vivere quotidiano. Mi va bene così».

Qual è la logica del suo operare?

«Trovare ogni volta un’idea portante che giustifichi la ragione del sostituire alla terra l’opera dell’uomo».

È cambiato il mestiere di architetto dai suoi inizi a oggi?

«Da un lato non è cambiato assolutamente poiché resta l’attività che organizza lo spazio di vita degli uomini, dall’altro è cambiato moltissimo in quanto gli strumenti della progettazione sono entrati anch’essi nel vortice dell’“immediatezza” per cui i tempi di progettazione e quindi di riflessione si sono ridotti drasticamente. A metà degli anni Novanta creo l’Accademia di architettura di Mendrisio facendo esplicito riferimento alla figura di un “architetto territoriale” per indicare un impegno globale e per spostare i tradizionali obiettivi professionali dal progetto dell’edificio al territorio, dalla casa alla città. Farsi carico di una progettazione che va oltre la singola costruzione, significa occuparsi degli spazi di relazione che l’architettura crea con il contesto».

Possiamo considerare la luce la vera protagonista del suo lavoro?

«C’è la convinzione che siano le linee disegnate a determinare lo spazio in cui viviamo. Invece è l’elemento apparentemente più sfuggente di un progetto, la luce, la vera generatrice dello spazio. Di per sé astratta, eterea, impalpabile, la luce necessita del suo contrario, la materia, per esprimersi e divenire concreta».

Perché nei suoi edifici il materiale più usato è il mattone?

«Il mattone di cotto (argilla) ancora oggi, è il materiale da costruzione più economico e naturale che esista. Inoltre, invecchia bene».

Lei ha progettato numerose chiese, una cattedrale, una sinagoga, una moschea. Perché la dimensione sacra è così importante nella sua architettura?

«L’architettura porta con sé l’idea del sacro. Si tratta di un’attività dettata da una volontà, un modo con il quale l’uomo si confronta con lo scorrere senza fine del tempo. Per costruire un’opera d’architettura il primo atto risiede nel tracciarne il perimetro, nel distinguere e separare l’interno dall’esterno: un atto “sacro” che isola una nuova realtà architettonica autonoma rispetto al “macrocosmo” infinito che la circonda. Inoltre, questo gesto mette in relazione inscindibilmente una porzione di territorio scelto dall’uomo con la terra-madre, la cultura e la storia di quel luogo».

Lei ha progettato per Leopoli la chiesa della Divina Provvidenza, con il monastero e un centro polifunzionale. Cosa significa edificare un luogo sacro in un Paese in guerra?

«Costruire esige essenzialmente un atteggiamento positivo: si costruisce “per”, non è possibile costruire “contro”. Ma viene spontanea la domanda: a cosa serve costruire una chiesa se contemporaneamente si distrugge senza pietà la città e un’intera nazione? Serve perché è un segno di rinascita, di speranza, di resistenza di fronte ai cumuli di macerie...»

Come papa Francesco, anche lei non va mai in vacanza. Perché?

«Perché trovo le “vacanze” nel mio lavoro».

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