giovedì 19 marzo 2009
Il 23enne centrocampista della Juve è una delle rivelazioni del campionato: «Se arriverà l’azzurro avrò fatto il massimo».
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Una leggenda Mundial della Ju­ventus, come Marco Tardelli, ha eletto Claudio Marchisio (classe 1986) a suo erede naturale. La stoffa del ragazzino che studia da “Gerrard” c’è tutta, l’umiltà pure. Ha segnato 2 gol al­la prima stagione da titolare biancone­ro, ma ci tiene a precisare: «Quello con la Fiorentina è stato molto bello, con il Napoli devo dire grazie a Blasi...». Parla con il piglio del veterano il “James Dean” di Chieri e l’unico dettaglio da venten­ne sono i brillantini ai lobi: «Ma li met­to solo quando esco da Vinovo...». Che cosa significa oggi essere un “gio­vane” nel calcio italiano? «Vuol dire fare molta più fatica per e­mergere rispetto ad altri campionati eu­ropei. Vedi la Premier: i ventenni ab­bondano e non solo nell’Arsenal». Eppure la Juventus ha mandato allo sbaraglio debuttanti come lei, Giovin­co, De Ceglie, Ariaudo... «Paradossalmente, tre anni fa, il mo­mento più brutto della storia della Juve (la retrocessione in B), si è trasformato in una grande chance per noi ragazzi nati e cresciuti nel vivaio bianconero. Per me e Giovinco è stata fondamenta­le la stagione in prestito all’Empoli, una di quelle poche società che ancora pun­tano sui giovani emergenti. Da noi spes­so manca il coraggio di rischiare». A Capello non è mancato visto che la convocava in prima squadra. «Capello lo vedevo come un generale e provavo soggezione. Poi ho scoperto la sua grande disponibilità e oggi posso so­lo ringraziarlo, la sua fiducia mi ha da­to tanta sicurezza». Cosa serve per arrivare ad essere tito­lare nella Juventus? «La differenza la fa sempre la testa. Ne ho visti tanti di ragazzi fortissimi per­dersi tra i 13 e i 16 anni... Testa e sacrifi­cio, allenarsi un giorno in più, piuttosto che uscire con la ragazzina determina- no il futuro di un professionista». A meno che si appartenga alla catego­ria dei “fenomeni”. «In Italia ci sono tanti potenziali cam­pioni, ma fenomeni non ne vedo. Quel­li saranno 4-5 nel mondo: Ibrahimovic, Kakà, Messi e Cristiano Ronaldo. Balo­telli? Oggi è un gran giocatore, ma per di­ventare un fenomeno deve migliorare, specie sul piano caratteriale. Forse l’u­nico che è sulla strada per diventarlo è Giuseppe Rossi, ma lui si è formato alla scuola del Manchester United...». Sta confermando ancora la superiorità dei club inglesi? «Hanno vinto loro, ma Inter, Juve e Ro­ma sono uscite a testa alta dalla Cham­pions. La differenza l’hanno fatta le ga­re in Inghilterra: vincere in quegli stadi è sempre stato difficile e in questo mo­mento è quasi impossibile». È vero che per­diamo anche per colpa della trop­pa pressione me­diatica? «I miei compagni che hanno gioca­to all’estero mi dicono che que­sta pressione esa­sperata è un pro­blema solo italia­no. Da noi in ef­fetti le partite im­portanti, come un Roma-Juven­tus, cominciano 4 giorni prima e quando si arriva a disputare i 90 minuti in campo, a volte diventano qua­si marginali». La popolarità e un contratto fino al 2014 come l’hanno cambiata? «Io sono rimasto lo stesso. Vado tran­quillamente al cinema con mia moglie e non mi capita ancora, come succede a Giovinco, di venire assalito dai tifosi ovunque mi trovi». Tutto come prima, dunque, da un an­no a questa parte? «No, nella mia vita le cose vanno più ve­loci che in campo. Ho sposato Roberta e a settembre arriverà anche il nostro primo bambino...». Pare il ritratto di un calciatore anni ’70... «Io sono così. Credo nella famiglia, il va­lore più importante che condivido con Roberta e che mi hanno trasmesso i miei genitori, papà Stefano e mamma Anna. Mio padre è un punto di riferi­mento costante, ha sempre credu­to nel mio sogno di diventare un calciatore e l’ha assecondato. Se fosse andata ma­le? Mi sarei mes­so a fare impian­ti di riscaldamen­to insieme a lui». Per il calcio però ha abbandonato gli studi. «Quando tre anni fa ho lasciato l’I­stituto geometri mi sentivo in col­pa e provavo anche un po’ di vergogna verso quei compagni che andavano al­la maturità. Ero giù, poi mi sono venu­te in soccorso le parole di mio padre: “Una persona va pesata quando apre bocca...”. Allora ho cominciato a co­struirmi una cultura parallela a quella scolastica. Leggo molto, mi tengo infor­mato su tutto e ho iniziato a studiare l’inglese. Quando sarò più tranquillo prenderò anche il diploma». Il calcio culturalmente cosa offre a un professionista? «Dà la possibilità di confrontarsi con ra­gazzi di culture e religioni diverse. Sono cattolico, ma provo lo stesso piacere nel­l’ascoltare Legrottaglie, quando parla del Dio cristiano, così come Sissoko che è di fede islamica. Il rispetto e la com­prensione sono valori che ho dentro e che arrivano dalla mia famiglia». Marchisio, per amicizia è anche molto vicino a chi soffre... «Da qualche anno frequento e faccio do­nazioni all’Istituto di ricerca e cura dei tumori di Candiolo. Sono entrato in con­tatto in seguito a un dramma: la morte del mio carissimo amico Davide Gran­dini, aveva 17 anni, giocava a calcio... Se l’è portato via un cancro al ginocchio». Da un incubo a un altro sogno: pensa mai alla Nazionale maggiore? «Se Lippi un giorno mi chiamasse vor­rebbe dire aver bruciato tutte le tappe. In questo momento punto a vincere l’europeo Under 21. A Pechino è anda­ta male, niente podio olimpico e mi so­no anche infortunato. Ora vorrei ripa­gare al meglio il ct Casiraghi». Un altro ex bianconero, ma cos’è se­condo lei lo stile Juve? «È qualcosa che ti entra dentro appena diventi un raccattapalle. Del Piero e tut­ti quelli della vecchia guardia trasmet­tono a noi giovani il peso storico e mo­rale di questa maglia. Chi ha la fortuna di indossarla sa che è un ambasciatore che porta in giro per il mondo l’imma­gine di una società gloriosa».
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