lunedì 17 luglio 2023
Per la prima volta in italiano le lettere della futura filosofa al fidanzato Gregorio del Campo. Il tema della nascita si insinua ovunque, sotto diversi aspetti
Una immagine della giovane María Zambrano

Una immagine della giovane María Zambrano - archivio

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La ferita del nascere è il « non essersi accontentati di essere stati semplicemente creati? L’aver bramato di nascere? Perché nascere è possibile solo fuori dal Paradiso », scrive María Zambrano (1904-1991) nel suo Aurora. Ma a questa considerazione che rimodula il Calderón de la Barca di La vita è sogno ne fa seguire un’altra, di segno opposto. In Delirio e destino, testimonia la meraviglia che scaturisce dall’«aprire gli occhi alla luce sorridendo, benedire il nuovo giorno, l’anima, la vita ricevuta, la vita... Un regalo di Dio che ci conosce, che sa il nostro segreto, la nostra inutilità ». La nascita dunque, per la grande pensatrice iberica, è la cifra della vita. È l’evento che incombe sull’uomo e sulla donna, da intendersi però insieme al dis-nascere o al ri-nascere. La creatura umana vive in cammino tra Scilla e Cariddi, tra «il voler dis-nascere o il voler ri-nascere.

Ci sono religioni del dis-nascere e quelle del ri-nascere. La storia della creatura umana a partire dall’orrore per la nascita è infatti una lotta tra il disinganno e la speranza, tra realtà possibili e sogni impossibili, tra mistero e delirio» ammonisce in Verso un sapere dell’anima. Intorno a questo passaggio gravi-ta il pensiero della pensatrice. Fino a qualche tempo fa, pretestuose interpretazioni psicoanalizzanti attribuivano l’attenzione al problema della nascita al fatto che Zambrano non fosse stata madre, alla pari dell’altra imponente filosofa della nascita del Novecento, Hannah Arendt.

Ora questa speciosa argomentazione si sgretola a fronte della pubblicazione della corrispondenza di María Zambrano con il fidanzato Gregorio del Campo, disponibile per la prima volta in italiano con l’uscita in libreria di L’amore a Segovia (pagine 270, euro 22,00), con cui la casa editrice Morcelliana continua la pubblicazione delle opere della filosofa. Il volume è corredato, oltre che dalla postfazione della curatrice Manuela Moretti, anche da una perspicua prefazione di Silvano Zucal e dall’introduzione di María Fernanda Santiago Bolaños, a cui si deve la scoperta di questo epistolario nell’estate del 2009 presso gli eredi di Del Campo, incarcerato il 19 luglio 1936 a Saragozza dai franchisti e poi fucilato il 6 settembre a Pamplona. Si tratta di un fidanzamento durato dal 1921 al 1926, che però nell’esistenza terrena di Zambrano getta un’ombra lunga quanto una vita.

Dalle lettere filtrano le emozioni di una ragazza innamorata che con il suo fidanzato (delle cui missive purtroppo non disponiamo) commenta libri, autori e film. Racconta vicende riguardanti le amiche, i propri studi, timori e le speranze di una ragazza che a Segovia, dove visse tra il 1908 e il 1924, incontrò i primi amori, tra cui quello con del Campo, conosciuto nel 1921, dopo la partenza del cugino il cugino Miguel Pizarro per il Giappone. Non sono molti gli anni del legame e verde è l’età di entrambi, eppure con il futuro capitano accarezzerà il sogno di un matrimonio e avrà pure un bambino morto poco dopo la nascita. Sta qui la novità rivelata dalle lettere, di cui due sono pubblicate qui a fianco.

Esse rivelano l’ingenuità degli anni giovanili e di certo un pensiero aurorale e grezzo, che si aspetta ancora di essere ampiamente dirozzato dagli studi e dalla vita. Ma rivelano già temi che staranno al cuore del pensiero della Zambrano matura. Il tema della nascita, anche per quanto provato nelle viscere, nelle entrañas, per la precoce scomparsa del figlio, si insinua ovunque, sotto diversi aspetti, anche quello del mistero della generazione femminile, del dono della nascita. «Considero il matrimonio qualcosa di sacro, in grado di commuovermi nel mio essere più profondo, in ciò che mi unisce all’intera Natura, alla vita degli astri, alla vita del Cosmo, al gran principio universale della femminilità (il femminile ha un’essenza più profonda rispetto al maschile) scriverà al fidanzato -. L’intera Natura dovette sentirsi donna nel momento in cui venne fecondata dal soffio divino del Creatore.

E la terra? Quando il seme viene depositato in essa, che cosa significherà per il seminatore? (qualcosa di grande, in ogni caso); ma [cosa significherà] per la terra, quando si sente scossa nell’accogliere amorevolmente il seme che la rende feconda, che la fa sentire terra, e senza il quale sarebbe un povero masso! E io sono questo, vita mia, con te sono una donna, sono terra che produce e dà frutto, senza di te sarei un povero masso arido e sterile, un masso più o meno forte e di valore ma sempre un povero masso sterile, secco e arido».

Le lettere / «Bimbo mio, perché te ne sei andato senza salutare?»

Due missive testimoniano il dolore per la perdita del figlio neonato e per la lontananza del fidanzato

Lettera XVII

Bimbo mio, perché te ne sei andato senza salutare tua madre, perché te ne sei andato prima che tuo padre potesse darti un bacio? Figlio mio, perché te ne sei andato dove tua madre non può vederti, dove resterai tutto solo? Anche se sei andato in cielo, perché ti interessa Dio e quell’altra gente? Non saresti stato meglio con la tua mammina, che presto se ne sarebbe andata via con te? Bimbo mio, come ti sentirai solo! Avrai freddo sotto la terra, ti mancherà la tua piccola culla, la tua coperta e la tua mantellina bianca? Ahi, se fossi lì con te ti metterei tutto, tutto per non farti avere freddo: i pantaloncini che ho fatto per te, tutti i tuoi vestitini, e ti metterei nella tua piccola culla per continuare a ninnarti e a cullarti.

Mi porterà mia madre un tuo capellino, di quei tuoi capelli così neri che avevi, come quelli di tuo padre? Quanta tristezza, se premo i seni esce ancora latte, quel latte che era per te, bimbo, e che non hai fatto in tempo a bere! Bimbo, figlio mio, piccolo bebè, dove sei, perché te ne sei andato se eri così bello e avevi degli occhietti neri così grandi e pieni d’intelligenza? Li avrai ancora, bimbo mio, ma ormai chiusi; il tuo faccino così carino sembrerà di cera, [così come] le tue manine piccoline che sostenevano la tua testolina quando avevi un giorno; bimbo, povero bimbo mio, quegli occhi che andavano verso la luce ormai non la vedranno più, la terra cadrà su di essi, nell’oscurità eterna.

Lettera XVIII

Martedì 29 – Che bel sole! Mi sono svegliata presto e sono rimasta sul balcone aspettando il postino; e il postino è passato (ovviamente!) ma non mi ha portato nulla. In questi giorni, senza ricevere tue lettere, ho avuto pazienza, ma oggi inizio già a disperarmi! Non voglio parlarti riguardo alla tua desiderata e attesa, tanto attesa lettera, se arriverà o se tarderà ad arrivare ancora quindici o venti giorni, perché quando arriverà sarò già morta: alla fine è quello che tu desideri e quello che accadrà. Il bimbo, poverino, è già morto (non so perché nei giorni di sole lo ricordo più spesso) e ora muoio io, così te ne stai tranquillo. Ora non ti potrai lamentare.

Con questo sole, ti immagino senza far nulla, senza pensare a nulla, senza sentire nulla, nella dolce sophrosine degli Dèi greci, che ormai sembra siano il tuo ideale. Tu sei felice, e comprendo bene perché non vuoi scrivere alla tua chonflica che qui, sola, muore di tristezza. È chiaro! Ti trovi a tuo agio lì: se il tempo è bello ne approfitterai e godrai della natura che ti circonda; e se invece c’è una tempesta? Molto meglio, sarà un gran divertimento per il tuo spirito! L’attività che il tuo spirito vuole esercitare, la puoi già realizzare nella tua postazione, quindi niente; tanto piacere! Cosa ti importa delle chonflicas che hanno perso il loro bimbetto e che muoiono dal dolore? Perché disturbarsi a scrivere una parolina di consolazione? Che muoiano, così la facciamo finita una volta per tutte. Che giorno triste sarà per me oggi! E che giorno meraviglioso per essere allegri e sentirsi giovani! E che tristi una vita e una gioventù trascorse sempre così, con tristezza e amarezza, sempre con il fantasma del dolore che oscura le cose e non consente di poterle godere.

Che cosa si può chiedere di più che poter godere dell’aria e del sole, come gli animali? Poiché la felicità, quella felicità buona che noi desideriamo, non la possiamo raggiungere, e nemmeno quell’altra di cui beneficiano gli animali. Ma è impossibile (almeno per me) separare la parte umana per lasciare solo l’altra. Magari [fosse possibile]! Almeno potrei godere dei beni materiali (che sono anche spirituali). Se oggi avessi ricevuto una tua lettera, nonostante tutto, starei bene (anche se, come ti ho detto, nei giorni di sole mi ricordo spesso del bambino) ma non mi è arrivata e penso al mio bimbo, che dorme, solo soletto, sottoterra, gli arriverà il sole? povero bimbo, così carino e vestito di bianco, che dorme sottoterra! Speriamo sia felice; almeno più di sua madre, che in questo giorno in cui tutto vive, vive anche lei nel peggiore dei modi, rendendosi conto della vita e delle cose.

Mi trovo sulla terrazza rialzata, dove arriva il sole e soffia un venticello molto piacevole (per chi può provare piacere per qualcosa) ma mi sembra di soffocare e mi manca il respiro. Già lo so: quando sono così angosciata il petto mi si blocca a tal punto da non lasciarmi respirare e questo è normale, per questo quando una persona esce da un periodo difficile si è soliti dire: “ora avrà ripreso a respirare”; ma quando riprenderò a respirare, io? A Madrid, quando non ricevevo alcuna lettera da parte tua, c’erano notti in cui dovevo sporgere le braccia fuori dal letto e alzarle, e a volte persino sedermi sul letto perché mi sembrava di soffocare. Povero lo stolto essere umano che in una splendida giornata di sole, quando tutta la Natura si risveglia, si sente mancare l’aria! Come può mancargli l’aria, se c’è aria per tutti! Che assurda la vita umana, che enorme sciocchezza! A cosa servono il pensiero, il progresso, la scienza e l’arte? A cosa l’amore? Perché arrivi un giorno di splendida vita e uno si senta morire, morire vivendo, che è la cosa peggiore.

È molto meglio immedesimarsi nell’insensibilità animale. Immagino che gli indiani che incontrarono i soldati di Alessandro [Magno] dovessero provare qualcosa di simile, immobili, con le unghie affondate nella carne e gli uccelli che facevano il nido sulle loro spalle, sommersi nel Nirvana. Avrebbero voluto essere alberi, piuttosto che uomini. E troviamo anche questo nella filosofia volontarista di Schopenhauer, che deriva dall’India, secondo la quale la volontà è l’anima della vita e l’origine di tutti i dolori; pertanto, la felicità risiederebbe nel non averla; ci deve essere qualcosa di tutto questo anche nel Cristianesimo. Mi starai già dicendo che mi fido troppo di quello che pensano gli altri. Non mi fido di quello che penso io, o meglio, [mi fido di] quello che sento e una volta che ne sono consapevole, spontaneamente, ricordo tutto ciò che di simile o somigliante ho trovato nel mondo; cosa vuoi? fa sempre piacere trovare un’eco della propria voce; la solitudine assoluta è insopportabile.

María Zambrano



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