sabato 8 aprile 2023
I popoli nativi richiedono le terre sottratte loro con la violenza dagli occidentali, mettendo in crisi il modello dei territori dai confini chiusi. Importante il ruolo della Chiesa
Un gruppo di donne Mapuche durante la visita di papa Francesco in Cile, il 17 gennaio 2018

Un gruppo di donne Mapuche durante la visita di papa Francesco in Cile, il 17 gennaio 2018 - Epa / Luca Zennaro

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Una delle novità politiche e al contempo antropologiche di questo inizio secolo è stata l’emergenza esponenziale delle identità indigene e native in tutto il mondo. Un incremento anche demografico oltre che di ricostruzione culturale collettiva e di richiesta di riconoscimento reale da parte di Stati e nazioni oltre che dalle compagini internazionali. Papa Francesco se ne è accorto immediatamente. Nei suoi viaggi e nelle sue dichiarazioni ha testimoniato l’importanza del paradigma indigeno nel quadro dei diritti umani, ma anche nella priorità del mondo nativo rispetto alle questioni ambientali. I popoli originari sono le prime vittime del cambiamento climatico e della devastazione della natura e ne sono anche i più importanti difensori in prima linea, abitando il mondo come luogo di risorse per la sussistenza, portando lo stesso rispetto per ogni forma di vita, da una persona, a un animale, ad una roccia.

Papa Francesco si è anche speso molto per chiedere perdono ai popoli nativi del mondo, spesso oltraggiati nella propria cultura e nelle proprie credenze da una idea imperialista dell’evangelizzazione. Chi vive in mondi dove la presenza indigena è rilevante sa anche molto bene, a differenza degli europei, che il paradigma indigeno implica conflitti e contrasti spesso violenti, interessi contrapposti, come quelli del sovranismo nazionale in opposizione ai diritti all’uso dei territori ancestrali.

Oggi la questione indigena ripropone in parte una critica allo stato nazionale che da presso somiglia alla questione ebraica alla fine del XIX secolo. È possibile concepire nazioni multi-identitarie che scavalcano i confini e soprattutto è possibile riconoscere ai popoli nativi il ruolo fondamentale di popoli originari, cioè esistenti prima che ogni nazione e Stato parcellizzassero il mondo? Il paradigma indigeno non richiede altri staterelli per le minoranze indie (o le maggioranze come è il caso dei quechua, degli aymara, dei guaranì e di molti altri gruppi indigeni in paesi come il Perù, la Bolivia, il Centro America). Richiede piuttosto una revisione del concetto di proprietà e di uso del territorio e delle sue risorse.

Francesco sa bene che c’è ancora molto da fare in questo campo e che Paesi come Argentina e Cile stanno facendo alcuni passi avanti, ma dentro a conflitti e dibattiti accesissimi. Un caso esemplare è quello dei territori di cui i Mapuche che abitano al di qua e al di là delle Ande richiedono la restituzione. Dopo l’arrivo degli spagnoli i Mapuche resistettero per oltre tre secoli, gestendo terre e bestiame e respingendo l’avanzare dei coloni europei. Oggi richiedono la restituzione delle loro terre e lo fanno in maniera diretta, occupando luoghi che sono stati sottratti ai loro nonni e bisnonni meno di 150 anni fa in una sanguinosa campagna militare che li ha sterminati e poi confinati in campi di concentramento.

Oggi la ricostruzione culturale di questi gruppi indigeni passa per una legge argentina del 1994 che li ha riconosciuti come “popoli originari” (nonostante le improbabili falsificazioni storiche dove i Mapuche vengono raccontati come invasori della Patagonia. Accade al museo Leleuque, finanziato da Benetton nel cuore della Patagonia dove la compagnia italiana possiede un milione di ettari). Il recupero di luoghi sacri e terre ancestrali porta alcuni gruppi più radicali a un atteggiamento aggressivo. Gran parte dei Mapuche però sono per il dialogo, vorrebbero un riconoscimento e una restituzione di dignità.

È recente la notizia della volontà del vescovo di San Isidro, Ojea Quintana, di donare al popolo mapuche, un terreno a loro sacro nella zona di Villa Mascardi. Un’iniziativa importantissima che arriva dopo una vicenda dolorosa e non ancora risolta: l’occupazione e la successiva detenzione di quattro “machi”, guaritrici e guide spirituali, con i loro bambini. La comunità di cui fanno parte vuole che l’offerta del vescovo venga declinata in un modo che non sia di semplice “carità”, ma una restituzione doverosa di un’area sacra da sempre appartenuta ai mapuche.

La situazione è molto complessa e la vicenda apre una breccia sull’urgenza di una soluzione per le questioni indigene in Argentina, Cile e nel resto dell’America Latina. Rivela la rinascita di un atteggiamento indigeno di riscatto e ripresa della dignità. Mauro Millian, il longko, il capo spirituale che incontriamo a Bariloche, ci conduce a fare visita alle donne, nella casa dove sono detenute. Desidera farci ascoltare direttamente, dalle loro parole, che cosa significa quel luogo che hanno occupato e farci prendere coscienza, anche emotivamente, che con quel luogo esiste un rapporto ancestrale. Nella casa che le vede rinchiuse da cinque mesi con i loro nove figli, di cui uno nato in detenzione, si respira una nobiltà nel modo di accoglierci, di vestire con la vitalità dei motivi e degli ornamenti mapuche, nell’eleganza dei costumi dei bambini e delle bambine.

Soprattutto chiacchierando ci si accorge presto che la motivazione che porta queste persone ad esporsi direttamente è qualcosa che ha poco a che fare con battaglie ideologiche ma bensì con una appartenenza viva, con la restituzione a sé stessi di una grande cultura che ha abitato questa parte del mondo da millenni e che sa ancora come rapportarcisi senza devastarlo.

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