domenica 14 giugno 2009
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In fin dei conti siamo rimasti a Tolomeo. Nella nostra mente la Terra è sempre al centro dell’universo. E, sulla Terra, la nostra terra deve a sua volta essere al centro. Così la lunga parabola della cartografia, che nel corso dei secoli ha cercato di descrivere sempre meglio – o in modo sempre più efficace – lo spazio intorno a noi, è approdata alla ricerca di nuovi modi per portare noi stessi al centro della mappa. Che non è affatto un mero dato, geometrico, scontato, ma al contrario un caldissimo veicolo di punti di vista, di visioni del mondo anche contrapposte, in lotta le une con le altre per guadagnarsi un posto al sole nella comprensione del creato. La prima scossa, nel 1973, fu la carta di Arno Peters. Il geografo tedesco lavorò di righello e calcolatrice sulla tradizionale carta di Mercatore, capostipite della cartografia matematica risalente al 1569: una proiezione che aveva il vantaggio di rispettare la sagoma dei continenti, ma lo svantaggio di distorcerne enormemente le proporzioni; le regioni temperate, come la nostra, e soprattutto quelle polari risultavano via via sempre più ingigantite, fino ad avere una Groenlandia (due milioni e mezzo di chilometri quadrati) grande, sulla mappa, esattamente quanto il Sudamerica (quasi diciannove milioni di chilometri quadrati). Alla carta di Mercatore erano state via via apportate numerose correzioni, generalmente 'arrotondando', sulla base di precisi rapporti matematici, i bordi: i risultati sono più o meno accettabili, tanto che sono quelli che vediamo abitualmente nei planisferi stampati alle nostre latitudini, ma Peters fece ancora un passettino. La sua mappa rispetta rigorosamente le proporzioni tra le superfici, anche a costo di distorcerne i profili: esattamente il contrario di Merctore, insomma. Ne venne fuori un planisfero che, rispetto a quanto siamo soliti vedere, appare 'schiacciato' a nord e a sud, e per contro 'espanso' al centro; Africa, Australia e Sudamerica dominano la mappa, mentre Nordamerica e – soprattutto – Europa risultano ridotte ai minimi termini. Negli anni Settanta fu un successone tra i terzomondisti e tutti i critici dell’eurocentrismo, ma a fini pratici si continuarono a usare le 'vecchie' Mercatore più o meno modificate (l’ottocentesca Mollweide è quella che ancora oggi fa la parte del leone). Almeno in Europa e negli Stati Uniti, regioni che, trovandosi a latitudini comprese tra i circoli polari e i tropici, 'vengono meglio' – nel senso di più grosse, ben disegnate e soprattutto più grandi – con questo tipo di proiezione. Anche Cina, Giappone ed Estremo Oriente in genere giacciono nella stessa fascia, e apprezzano di conseguenza le stesse proiezioni; quello che non apprezzano è invece trovarsi ai bordi delle mappe, per di più distorti nel caso della Mollweide che deforma enormemente le terre disposte lungo i margini dell’ellisse cui riduce il globo. Ed ecco che, anziché 'tagliare' l’Oceano Pacifico come siamo soliti fare noi, 'tagliano' l’Atlantico, relegando al margine sinistro l’Europa e a quello destro l’America. Espediente antico, attestato fin dagli splendidi planisferi cinesi del Settecento e ancora oggi d’uso corrente in ogni ambito della vita dell’Estremo Oriente, dalle scuole al mondo economico. Ma ancora insoddisfacente per chi, dal nostro punto di vista, vive più ai margini di tutti: australiani e neozelandesi. Che da qualche anno, e con sempre maggior convinzione, insistono a voler ribaltare la convenzione che vuole il nord in alto e il sud in basso. Ecco allora le loro mappe upside down, 'sottosopra' e rigorosamente australo­centriche, dove noi europei finiamo nell’angolino in basso a sinistra della carta. Proprio dove siamo avvezzi a veder relegati gli australiani.
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