mercoledì 26 aprile 2023
Zaccuri offre una raccolta di dieci missive dell’autore. Tra galanteria settecentesca, cattolicesimo democratico, vita familiare
Ritratto di Alessandro Manzoni di Francesco Hayez, 1841 (particolare). Milano, Pinacoteca di Brera

Ritratto di Alessandro Manzoni di Francesco Hayez, 1841 (particolare). Milano, Pinacoteca di Brera - archivio

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Proprio lo scorso anno Alessandro Zaccuri ha pubblicato per Marsilio un singolare romanzo storico, Poco a me stesso, ambientato nella Milano di metà Ottocento (e in parte a casa Beccaria), che aveva tra i suoi personaggi anche Alessandro Manzoni. Un romanzo storico, sì, ma - ecco la singolarità - per modo di dire: in quanto si trattava di uomini realmente esistiti e di fatti oggettivamente accaduti, a cominciare dal gran lombardo (modello inarrivabile per tutti i suoi nipotini), i quali però, se rispondevano a un rigoroso scrupolo documentario, levitavano anche nei cieli d’una furiosa e allegra immaginazione, non di rado insolente, sicuramente antiretorica. A margine di questo felicissimo lavoro, che ha avuto di certo momenti filologicamente impegnativi, è nato questo delizioso librino appena pubblicato da L’Orma editore, Io ti ho a scrivere cose sì strane. Lettere di un grand’uomo tra casa e bottega (pagine 64, euro 8,00), che raccoglie, come nota nella premessa lo stesso Zaccuri, «meno di venti lettere scelte da un epistolario di quasi duemila», a coprire un arco cronologico che va dalla primissima giovinezza all’estrema vecchiaia.

Questi i destinatari prescelti: l’amico di gioventù Giovan Battista Pagani, Vincenzo Monti, Pio VII, Claude Fauriel, lo zio Giulio Beccaria, Wolfgang Goethe, Niccolò Tommaseo, Antonio Rosmini, Leopoldo II di Toscana, il pittore Francesco Gonin (autore delle illustrazioni dell’edizione del 1840 dei Promessi sposi), il cugino di secondo grado Giacomo Beccaria («al quale lo scrittore si rivolge spesso per ottenere pareri legali»), Giuseppe Giusti, Tommaso Grossi, la seconda moglie Teresa Manzoni Borri, la figlia Matilde, il politico Emilio Broglio, il genero Giovanni Battista Giorgini. Le singole lettere qui antologizzate sono ogni volta introdotte da brevi e gustose introduzioni che ripercorrono velocemente alcune tappe, più o meno salienti, della vita di Manzoni. Ma torniamo all’epistolario che Zaccuri rubrica nel sottotitolo sotto l’etichetta «tra casa e bottega»: là dove la «bottega» non è di poco impegno, se è vero che non implica soltanto l’«industrioso laboratorio di scrittura della casa milanese di via del Morone», ma anche una non meno faticosa attività di «editore e, in un certo senso, agente di se stesso».

Di questa specie sono senz’altro, tra le altre e in diverso modo, anche le lettere a Niccolò Tommaseo, Antonio Rosmini e Giuseppe Giusti. Si parlava di disposizione antiretorica del romanzo di Zaccuri, che trova piacevole conferma anche in questo carteggio. A cominciare dalla prima e bellissima, quella spedita presumibilmente tra il 1801 e il 1803 all’amico Pagani, per raccontargli d’un altro amico, Luigi Arese, acceso di desiderio per una ragazza che vive a casa Manzoni, ma che pare un po’ troppo attratta da Alessandro. Una lettera in cui «circola un’aria da Settecento galante», come in questo passaggio in cui il futuro scrittore propone all’amico un patto tra mariuoli ai danni della ragazza: «Manifesto una persuasione di poter correr carriera con lui; egli se ne mostra lietissimo. Se ne fa patto; e ci dividiamo già le spoglie della futura preda».

E che dire della lettera inviata al genero il 25 gennaio 1873, pochi mesi prima della morte, in cui Manzoni si rifiuta di comporre un’epigrafe in onore di Napoleone III appena scomparso? Sentite qua, mentre manifesta il suo disagio sul personaggio da celebrare, nonostante certi suoi indubbi meriti: «Nel caso di cui mi scrivi, una gran difficoltà mi nasce dalla qualità del soggetto medesimo». E ancora: «Il benefizio che si tratta di celebrare, fu certamente una cosa immensa, anzi unica e incomparabile, ma accompagnata nella condotta da fatti restrittivi, anzi opposti». Interessantissima, proprio perché ci conduce al cuore del suo cattolicesimo democratico, è l’epistola del 24 aprile 1814 a Claude Fauriel, «l’intellettuale francese in dialogo con il quale sviluppa alcuni degli elementi fondamentali della propria poetica», quella dedicata alla sommossa popolare del 1814 a Milano, che culminò nel violento omicidio di Giuseppe Prina, ministro delle Finanze del Regno d’Italia napoleonico: «Come Lei sa, d’altronde, il popolo è sempre buon giurato e cattivo giudice; cionondimeno, e può credermi, tutta la gente onesta si è sentita profondamente addolorata per questo accadimento». E si potrebbe continuare.

Se dalla «bottega» si passa alla «casa», e cioè a quella dimensione che ha autorizzato l’idea ricevuta di un Manzoni padre anaffettivo e crudele, le sorprese non sono di minore suggestione. Non mi rivolgerò al personaggio di Matilde: ma solo perché Cesare Garboli, nel 1992, ha pubblicato con un’introduzione assai partecipe lo struggente Journal della sfortunata fanciulla. Citerò invece l’epistola alla moglie Teresa del 27 settembre 1852: «Dio ti benedica e ti conservi, e se gli chiedo anche, come fo con tutto il core, che ti faccia star meglio, spero che non troverà la mia preghiera indiscreta».

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